In Italia si sta creando una cortina fumogena sull’auto elettrica che il nostro paese rischia di pagare molto caro.
Ma occorre allargare lo sguardo all’intera Europa, perché parliamo del destino di un importantissimo comparto industriale.
In Italia le auto elettriche stentano a diffondersi a causa di un atteggiamento miope del governo che è arrivato a mettere in discussione l’obiettivo europeo del blocco delle vendite delle auto a combustione interna dal 2035.
Una decisione che invece ha visto una replica in molti paesi, dal Canada a 12 Stati Usa – California, New York, Oregon, Vermont… – fino ad arrivare in Cina, il paese che guida la corsa mondiale con già 8 milioni di auto elettriche su strada.
Ma il governo italiano ha fatto confusione anche sul fronte degli incentivi (estesi anche alle auto a benzina e diesel), con il risultato che la quota di vendita di veicoli elettrici è attorno al 4%, ben lontano al 15% medio in Ue, per non parlare del 37% raggiunto ad agosto in Germania. Il dato tedesco, peraltro, è significativo considerando che quel mercato rappresenta uno sbocco importante per la nostra industria della componentistica.
Proprio per questo è incredibile l’assenza di una politica industriale che accompagni le nostre imprese nella transizione. Oppure la distrazione, come la narrazione sui biocombustibili fortemente sostenuta dall’Eni, che rischia di farci perdere tempo e smarrire l’obiettivo.
“La strada dell’elettrico è tracciata, ed è l’unica – sottolinea Marco Stella, vice presidente Anfia (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica) – non dobbiamo costruire falsi idoli su e-fuel e biocombustibili. Potranno aggiungersi, preservare nicchie, aiutare a tenere vivi gli investimenti per utilizzare i motori vecchi. Ma non facciamoci deconcentrare dall’idea che la strada è tracciata, ed è l’elettrico”.
Del resto, anche nell’ultimo rapporto del settembre 2023, redatto da Iea e Irena si leggono affermazioni chiarissime: “Mentre le emissioni dei trasporti stradali continuano a risalire verso i livelli pre-pandemici, le vendite di auto elettriche – attualmente il 14% delle vendite totali di automobili – raddoppiano ogni 1,2 anni. Se questo ritmo continua, la diffusione delle auto elettriche supererà quanto richiesto in uno scenario di zero emissioni nette, raggiungendo il 65% delle nuove vendite prima del 2030.”
Nel grafico la crescita esplosiva della mobilità elettrica (fonte Iea) e come si vede dalla figura, oltre la metà delle vendite è concentrata in Cina.
Pechino, che ha puntato molto sulla crescita del proprio comparto, mira adesso all’esportazione di modelli a basso costo. BYD, ad esempio, ha deciso di vendere il suo modello Dolphin 100% elettrico con autonomia di 400 km sul mercato giapponese, a 23.000 €.
Il rischio di una forte presenza cinese è ben presente. Maros Sefkovic, il nuovo zar europeo del Green Deal che ha preso il posto di Timmermans, aveva già affermato negli anni scorsi che il suo obiettivo era quello di evitare un “effetto Kodak” per il settore automobilistico europeo.
La Germania dal 2000 in poi ha fatto profitti enormi con la vendita dei suoi modelli in Cina, ma il vento adesso è cambiato e la situazione si sta ribaltando. Tesla, infatti, è un importante esportatore di auto elettriche dalla Cina all’Europa. Renault costruisce la Dacia Spring a Shiyan. La BMW costruirà la mini elettrica in Cina per le esportazioni in Europa.
La situazione è in rapido movimento. La quota cinese di veicoli elettrici venduti in Europa è salita all’8% e potrebbe raggiungere il 15% nel 2025, con prezzi in genere inferiori del 20% ai modelli fabbricati nell’Unione europea.
L’ingresso di veicoli elettrici cinesi più economici ha già spinto alcune case automobilistiche europee ad agire. Renault ha annunciato a luglio l’obiettivo di ridurre del 40% i costi di produzione dei suoi modelli elettrici e Tesla ha tagliato i prezzi più volte quest’anno anche se ciò ha intaccato i suoi margini.
Interessante la posizione dei costruttori tedeschi che hanno ancora forti interessi in Cina. L’associazione di categoria VDA ha affermato che l’Ue deve tenere conto di una possibile reazione da parte della Cina e creare le condizioni affinché gli operatori europei possano avere successo, dall’abbassamento dei prezzi dell’elettricità alla riduzione degli ostacoli burocratici.
In questo contesto in rapida evoluzione, come si stanno muovendo gli Usa?
L’Inflation Reduction Act, approvato nel giugno 2022, è un ottimo esempio del ritorno degli Stati Uniti alla politica industriale e ha già contribuito a creare 171mila nuovi posti di lavoro.
Tra le altre misure, prevede un credito d’imposta sui veicoli elettrici volto a ridurre la dipendenza dell’industria statunitense dalla Cina. Per essere idonei, i veicoli devono infatti essere assemblati in Nord America. Non solo, ma i minerali utilizzati nei veicoli elettrici devono provenire dal Nord America o dai partner dell’accordo di libero scambio. Eventuali minerali critici o componenti di batterie provenienti da Cina e Russia impediranno l’accesso agli incentivi a partire dal 2024 per il contenuto delle batterie e dal 2025 per i minerali critici.
E i risultati iniziano a vedersi. Nella prima metà del 2023 sono stati venduti 670.000 veicoli elettrici, per l’80% a batteria. Ci sono voluti 8 anni per raggiungere il primo milione di veicoli elettrici venduti, ma ora ne sono stati venduti più di un milione solo negli ultimi 12 mesi.
Cosa emerge da questa analisi?
Che la Cina partita con lungimiranza e con largo anticipo si appresta ad aggredire i mercati internazionali.
Gli Usa con l’IRA hanno creato un’efficace barriera, mentre la Ue, che pure sta facendo notevoli sforzi sul fronte dell’autonomia, come con il Net Zero Industry Act, si trova in una situazione critica.
Singoli paesi, come la Francia, intendono difendersi lanciando bonus per l’acquisto di vetture elettriche, basati su un punteggio ambientale che tiene conto delle emissioni di CO2 sul ciclo di vita, una scelta che indirettamente penalizzerebbe le auto cinesi.
La situazione italiana è molto delicata per l’insipienza del governo e per lo spostamento all’estero delle decisioni su Stellantis.
Il caso dell’azienda Marelli di Crevalcore minacciata di chiusura ha animato un acceso dibattito su questo fronte (Crisi Marelli, quando la cattiva politica industriale colpevolizza l’auto elettrica).
Vanno fatte due riflessioni in proposito. La prima riguarda la miopia di FCA quando ha venduto la Marelli alla giapponese Calsonic Kinsei, controllata dal fondo Usa Kkr per 6 miliardi di euro che dovevano servire per avviare un processo di elettrificazione. In realtà due miliardi sono stati subito girati agli azionisti.
Inoltre, Magneti Marelli ha sempre lavorato sui componenti elettronici e, quindi, sarebbe indicata per il processo di trasformazione in atto. È incredibile la mossa di FCA di liberarsi di questo gioiello e spetterebbe ora alla politica lanciare messaggi precisi. Anche perché ci sarebbero ancora speranze.
Nel rapporto “Le trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano” redatto da Motus-e e Università di Venezia sono state mappate 2.400 aziende italiane evidenziando come i posti di lavoro del settore auto potrebbero, con un’adeguata politica governativa, aumentare del 6% entro il 2030.
Articolo tratto dall’editoriale della rivista bimestrale QualEnergia n.4/2023 (in uscita)