Usa, la candidata di Trump alla Corte suprema rischia di essere un disastro per il clima

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Amy Coney Barrett, la giudice indicata dal Presidente Donald Trump come succeditrice di Ruth Bader Ginsburg alla Corte suprema USA, potrebbe cementare le politiche negazioniste dei cambiamenti climatici della Casa Bianca.

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(Articolo scritto e pubblicato lo scorso 29 settembre, lo ripubblichiamo oggi, 27 ottobre, a valle della conferma della nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema arrivata dal Senato Usa ieri, cioè nella notte italiana, con 52 voti a favore e 48 contrari)

Quando il giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, paladina dei diritti civili e delle donne, è deceduta lo scorso 18 settembre, molti commentatori sono stati lesti nel cogliere le ripercussioni che la sua scomparsa potrebbe avere per il diritto all’aborto e l’uguaglianza di genere negli USA. Ma ci sono altre preoccupazioni che la sua morte solleva: quelle relative alla legislazione statunitense su clima e ambiente.

Il Presiedete USA, Donald Trump, infatti, ha subito nominato la magistrata del Settimo Circuito Amy Coney Barrett come nuovo giudice in pectore della più alta corte statunitense, in sostituzione di Bader Ginsburg. Un’eventuale conferma da parte del Senato della nomina di Coney Barrett potrebbe spostare molto a destra la sensibilità giurisprudenziale della Corte Suprema, determinando una schiacciante maggioranza conservatrice di 6 a 3.

La nomina di un giudice della Corte Suprema USA è cruciale perché, vista la carica a vita, contribuirà a determinare per decenni a venire l’indirizzo della corte stessa, con ripercussioni che vanno molto al di là del mandato presidenziale di chi l’ha nominata. E poiché questa sarebbe la terza nomina di Trump di giudici particolarmente conservatori alla Corte Suprema nel giro di soli quattro anni, l’equilibrio delle posizioni giurisprudenziali della corte ne uscirebbe profondamente modificato, probabilmente a favore di politiche di fatto pro-fossili e negazioniste dei mutamenti climatici.

Il rischio concreto è che qualsiasi politica proposta per proteggere il pianeta dal cambiamento climatico sarà abrogata al suo varo – prima ancora che possa diventare effettivamente operativa.

È una prospettiva che preoccupa molto gli ambientalisti e gli operatori delle rinnovabili, che assieme alla possibile rielezioni di Trump a novembre, assesterebbe un durissimo colpo alle prospettive di decarbonizzazione degli Stati Uniti e, di conseguenza, del mondo.

Come vi abbiamo raccontato in questo articolo, infatti, molti analisti ritengono un secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca ridurrebbe drasticamente la possibilità di eliminare le emissioni di carbonio dalla rete elettrica americana prima del 2050.

Vediamo in maggiore dettaglio quali sono i rischi climatici che la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema potrebbe acuire.

Va detto in primis che la Corte Suprema USA non può abrogare a piacimento legislazioni e ordini esecutivi di un presidente. La corte può però rendere molto più difficile l’attuazione delle leggi o il taglio delle emissioni nocive – interpretando le normative in modo restrittivo, svuotando il potere regolatorio di autorità di settore come l’Environmental Protection Agency (EPA) e limitando in altro modo il potere presidenziale e congressuale. E ora, con la prospettiva di una Corte Suprema di orientamenti conservatori come mai prima nel passato recente, le probabilità che le politiche pro-clima di una eventuale amministrazione democratica sopravvivano se impugnate di fronte all’alta corte sembrano più basse che mai.

Barrett è una convinta conservatrice e beniamina della destra religiosa. Non si sa molto dei suoi precedenti ambientali, ma se seguisse le orme delle precedenti nomine di Trump, come sembra probabile, si unirebbe all’ala conservatrice della corte per minare le leggi ambientali esistenti e bloccarne di nuove.

Ecco due modi in cui una corte super-conservatrice con Barrett potrebbe sospendere il progresso climatico. E come cercare di evitarli.

Legittimazione a ricorrere in giudizio

Una delle questioni più importanti nel diritto ambientale è se organizzazioni, Comuni, Stati e individui abbiano la possibilità di citare in giudizio il governo affinché intervenga sul cambiamento climatico. Per essere legittimati a fare causa, i querelanti devono riuscire a dimostrare: a) che hanno subìto un qualche tipo di danno; b) che il danno è riconducibile all’azione (o all’inazione) del governo; e c) che il risultato della causa rettificherebbe in qualche modo il danno fatto.

Questo pone degli ostacoli nell’affrontare un problema così vasto e diffuso come il cambiamento climatico, che per sua stessa natura è di ordine mondiale. Un tribunale di sensibilità conservatrice, infatti, potrebbe facilmente sostenere che, poiché il cambiamento climatico colpisce tutti e le emissioni globali di CO2 sono difficili da tracciare e ricondurre a specifici imputati, uno Stato o un Comune non abbiano la possibilità di intentare causa. Inoltre, dal momento che nessuna singola azione legale può veramente “risolvere” la crisi climatica, dei giudici conservatori potrebbero agevolmente sostenere che qualsiasi azione legale non rettificherebbe il danno causato – demolendo in ogni caso la posizione dei querelanti.

“Io la chiamo la legittimità dei Riccioli d’Oro: se il danno non è abbastanza grande, non si può fare causa; ma se il danno è enorme, non si può fare causa perché riguarda tutti”, ha detto Robert Percival, direttore del programma di diritto ambientale dell’Università del Maryland, a Grist.

“Le cause intentate dagli Stati e dai gruppi ambientalisti sono molto importanti – per esempio, nel tenere il fiato sul collo di Trump”, ha detto Michael Gerrard, professore di diritto alla Columbia University. Se questi gruppi non hanno il diritto di fare causa, allora una Casa Bianca ostile alle politiche climatiche, sostenuta indirettamente da una Corte Suprema conservatrice, potrebbe abrogare altre leggi ambientali e continuare a ignorare il cambiamento climatico – senza che nulla faccia da contrappeso a tali azioni.

Regolamenti bloccati

Nel 2014, l’EPA introdusse il Clean Power Plan, per ridurre del 30% le emissioni di gas serra delle centrali elettriche USA in 15 anni.

Nonostante il diritto dell’EPA di regolamentare le emissioni di gas serra fosse stato confermato in un caso giudiziario precedente, molti Stati, per lo più a guida repubblicana, fecero causa per bloccare il Clean Power Plan. La Corte Suprema accolse la richiesta dei querelanti, sospendendo l’applicazione del piano mentre la causa si faceva strada nei tribunali locali, e ostacolando di fatto la regolamentazione fino alla fine del mandato del presidente Obama. Il presidente Trump ha poi sostituito completamente tale norma.

Un tribunale super-conservatore con Barrett a bordo riserverebbe probabilmente un trattamento simile a qualsiasi azione regolatoria sul cambiamento climatico, stabilendo che le normative su larga scala circa le emissioni di gas serra vanno oltre il mandato dell’EPA.

Questo potrebbe rappresentare un grosso problema per il candidato presidenziale dei Democratici, Joe Biden, che ha promesso di fare del clima, se eletto, il fulcro del proprio mandato. Biden ha promesso che farà funzionare la rete elettrica americana esclusivamente con energia pulita entro il 2035, triplicando gli obiettivi del piano di Obama, che l’EPA aveva sposato. Se i Democratici non prenderanno il controllo del Senato – e al momento è tutt’altro che scontato che ce la faranno – Biden dovrà cercare di regolamentare la situazione attraverso l’EPA, ed è probabile che non finirebbe bene per le sue promesse.

Dipende dal Congresso

Esiste però una strada maestra da percorrere per un’azione climatica di tipo “Green New Deal“, che però dipenderà in buona parte dalla possibilità che i democratici conquistino la maggioranza al Senato. Lo scenario migliore per politiche climatiche progressiste sarebbe, infatti, la loro approvazione tramite un disegno di legge da parte del Congresso.

“La maggior parte dei contenziosi sulla normativa climatica che arriva alla Corte Suprema è sull’interpretazione di statuti ambigui“, ha detto Gerrard. Ma se il Congresso e il presidente adottano una legge sul clima lasciando poco spazio all’interpretazione – questo toglierà di riflesso spazio di manovra alla Corte Suprema.

Spesso, però, le leggi, anche qui in Italia, tendono ad esporre obiettivi e princìpi generali, con la decisione circa i dettagli su come raggiungere gli obiettivi lasciati alle varie autorità di settore.

Il problema è che, a differenza dell’Italia, c’è negli USA una tendenza crescente tra i giudici conservatori ad ampliare la cosiddetta “dottrina della non delega“, per cui le leggi che sembrano dare troppo potere alle autorità di settore finiscono per essere bocciate. Ciò significa che se, per esempio, il Congresso approva una legge che regola le emissioni di gas serra, ma lascia all’EPA il compito di decidere i dettagli, la corte potrebbe sopprimerla.

Quindi, se un’eventuale amministrazione Biden riuscisse a far approvare dal Congresso una legge sull’energia pulita, sulla riduzione delle emissioni o una carbon tax, dovrebbe aver cura che tale norma sia molto dettagliata, evitando quindi di lasciare troppo spazio decisionale alle authority; altrimenti, probabilmente, tale norma non sopravviverebbe a una impugnazione di fronte alla Corte Suprema, così come si va configurando la sua composizione.

Gerrard, comunque, ci spera. “Se le leggi sono abbastanza chiare, univoche e specifiche, il Congresso lega le mani ai tribunali”, ha concluso.

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