Tassa sulla CO2 alle frontiere: la Cina insorge, ma ne ha motivo?

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Il Cbam proposto dalla Commissione Ue non sarà facile da realizzare e in ogni caso dovrebbe avere effetti limitati.

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La tassa sulla CO2 alla frontiera che la Commissione europea vorrebbe adottare “è essenzialmente una misura unilaterale per spostare la questione del cambiamento climatico sul settore commerciale”, “viola i principi del WTO” e “minerà seriamente la fiducia reciproca nella comunità globale e le prospettive di crescita economica”.

La dichiarazione è stata resa nei giorni scorsi da Liu Youbin, portavoce del Ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente cinese, che ha ribadito la posizione della Cina secondo cui la risposta di ciascun paese ai cambiamenti climatici dovrebbe tenere conto del suo livello di sviluppo.

Ma la nota contrarietà della Cina e di molte altre grandi economie emergenti non è una novità, mentre il futuro e gli impatti della misura tracciata nel pacchetto Ue Fit for 55 restano tutti da capire.

Come avevamo spiegato qui, il Cbam ossia Carbon Border Adjustment Mechanism europeo sarebbe la prima tassa al mondo sull’importazione di inquinamento.

Il nuovo meccanismo dovrebbe partire nel 2026 dopo un periodo di transizione e colpirebbe una serie di prodotti da produzioni energivore quali acciaio, alluminio, cemento e fertilizzanti. Secondo la proposta di Bruxelles, i produttori esteri dovranno acquistare dei certificati in base alla CO2 emessa, a un prezzo correlato a quello dei permessi sul mercato europeo Ets.

Se gli importatori dimostreranno, tramite dati verificati da terze parti, di aver già pagato altrove un prezzo della CO2 per la produzione dei beni importati, potranno dedurre quel costo dai certificati Cbam.

I dettagli del meccanismo sono in gran parte da definire, ma è chiaro che interesserebbe soprattutto i produttori di acciaio, cemento e alluminio in paesi con misure sulle emissioni più blande rispetto a quelle europee: Cina, Russia e Turchia sono le potenze che potrebbero essere più colpite date il loro export verso l’Ue in questi settori.

Ci vorranno però anni per implementare il meccanismo e alcuni sostengono che il Cbam potrebbe non entrare mai completamente in vigore: la tassa sulla CO2 potrebbe servire più che altro come minaccia per spingere altri paesi a fare di più per ridurre le emissioni.

La misura dovrebbe infatti essere attuata in due fasi: dal 2023 al 2025, l’Ue monitorerà le informazioni fornite dalle aziende sulle proprie emissioni; solo dopo, nel 2026, inizierà ad essere applicata la tassa.

La gradualità nell’implementazione della misura, con il periodo transitorio 2023-2025, è necessaria per non violare le norme del WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio. Tuttavia, mettere in pratica la misura può rivelarsi difficile.

“L’implementazione potrebbe rivelarsi un incubo logistico“, spiega ad esempio a Bloomberg James Whiteside, capo globale della ricerca multi-commodity a Wood Mackenzie. “C’è poca trasparenza sulle emissioni di carbonio associate ai prodotti. Anche determinare il paese di origine dei prodotti può essere problematico”.

Secondo alcuni analisti, poi è probabile che la nuova tassa faccia ben poco per ridurre le emissioni di gas serra: secondo il think tank tedesco Bertelsmann Stiftung porterebbe a una riduzione extra delle emissioni mondiali di CO2 dello 0,2%. Un’alternativa più ambiziosa – spiega il think tank – sarebbe un prezzo minimo globale della CO2, che però è ancora più difficile da realizzare.

A indebolire ulteriormente gli effetti del Cbam c’è poi il fatto che la Commissione europea ha scelto di richiedere alle aziende di segnalare nella prima fase solo l’inquinamento che proviene direttamente dalle loro operazioni, le cosiddette emissioni di scope 1, lasciando così scoperta gran parte delle emissioni della filiera, anche se questa limitazione potrebbe essere essere rivista all’ambito 2 a partire dal 2025.

Secondo gli analisti di Morgan Stanley, citati da Bloomberg, i produttori di acciaio russi, i cui altiforni inquinano leggermente di più rispetto ai loro omologhi europei, saranno i più colpiti, ma l’impatto sarà in realtà contenuto, si spiega, dal basso costo della produzione russa e dall’introduzione molto graduale del Cbam.

La Turchia, il più grande esportatore di acciaio in Europa e che ha forni in gran parte elettrici, potrebbe invece guadagnare un vantaggio con il nuovo sistema, specie se le emissioni indirette derivanti dal consumo di energia elettrica non saranno coperte dal Cbam, cosa ancora da stabilire.

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