Come è noto ai lettori di QualEnergia.it, il punto più critico della transizione energetica, è quello dello storage stagionale.
Come fare ad accumulare energia solare ed eolica nelle stagioni in cui sono più abbondanti, per utilizzarla poi in quelle dove sono più carenti?
I sistemi di accumulo più utilizzati oggi non sono molto adatti a quello scopo.
Le batterie tendono a perdere carica nel tempo, hanno una vita relativamente breve e comunque metterne insieme abbastanza per coprire i MWh, GWh o TWh necessari allo spostamento stagionale, comporta un costo, economico e ambientale molto alto.
Il pompaggio idroelettrico sembrerebbe più adatto allo scopo, ma l’acqua evapora e i bacini hanno un volume limitato e comunque devono cedere sempre acqua per alimentare i fiumi (anche se in una diversa versione, il PHS potrebbe servire anche stagionalmente).
Scartate altre soluzioni ancora a livello di prototipo, per adesso resta solo un contendente in campo: la produzione di idrogeno mediante elettrolisi da elettricità rinnovabile, da immagazzinare in bombole o depositi sotterranei, da riconvertire poi in elettricità, tramite fuel-cell, quando serve.
In questo modo l’accumulo può essere di lunga durata e scalato verso l’alto a volontà, a un costo relativamente basso e con impiego di ben poche, e comuni, materie prime.
Inoltre, l’idrogeno è anche un importante gas industriale, fondamentale, per esempio, per produrre fertilizzanti azotati, così che creare un’infrastruttura che lo produca in grandi quantità economicamente e in modo sostenibile, permetterebbe di sostituire anche quello prodotto da combustibili fossili, con ulteriori benefici climatici.
Finora questa soluzione è studiata e testata quasi solo in vista della grande scala cioè l’accumulo stagionale per le reti elettriche (con alcune interessanti eccezioni, come questo condominio svedese), ma c’è chi crede che possa funzionare anche per casi di piccola o media dimensione, dalle singole abitazioni fino a scuole, imprese e villaggi.
A puntarci, fra le altre, è la società Enapter, con varie sedi in tutto il mondo tra cui una in Italia, a Crespina Lorenzana, in provincia di Pisa.
Il vecchio giornalista ricordava vagamente di essere andato da quelle parti, venti anni o più anni fa, a visitare un’azienda, la Acta, che produceva un nuovo tipo di membrana per fuel-cell alcaline.
«Siamo noi, o meglio la Enapter ha acquisito il know how di Acta, e adesso produce qui i suoi elettrolizzatori, usando una tecnologia derivata da quegli studi», ci spiega Simone Perini, un tempo coordinatore della ricerca e sviluppo per Acta e oggi referente della sede italiana di Enapter.
Le celle elettrolitiche che Enapter produce sono infatti del tipo AEM, Anion Exchange Membrane, in cui a spostarsi fra gli elettrodi che scindono la molecola dell’acqua in idrogeno e ossigeno, sono gli ioni negativi, invece delle PEM, dove si spostano gli ioni positivi, che fino a qualche anno fa sembravano la scelta migliore, quanto a efficienza.
«PEM e AEM hanno diversi vantaggi sulle celle elettrolitiche usate normalmente dall’industria, come consentire impianti più compatti, che funzionano ad alta pressione e con semplice acqua demineralizzata. Ma le AEM permettono anche di usare meno idrossido di potassio, KOH, come elettrolita, e soprattutto possono fare a meno dei costosi catalizzatori al platino, sostituiti con ferro-nickel. Il tutto mantenendo un’alta efficienza, circa il 70%: insomma le AEM si sono rivelate ideali per fare piccoli impianti economici per elettrolisi», ci dice Perini.
Enapter al momento produce una cinquantina di esemplari al mese di elettrolizzatori da 2,2 kW, in grado di produrre circa 0,5 mc di idrogeno l’ora, ovvero una quantità di gas contenente, in forma chimica, circa 1,7 kWh di energia (cioè circa 0,9 kWh di elettricità, alimentando una fuel cell). Questi elettrolizzatori sono pensati come moduli da combinare per coprire scale via via maggiori, così da usare un solo prodotto per tutte le esigenze.
«E hanno anche il grande vantaggio di produrre idrogeno già a 35 bar di pressione, così da riempire le bombole direttamente, senza bisogno di un compressore, che costa e abbassa l’efficienza».
Una volta accumulato il gas, questo può essere usato direttamente, per esempio, per alimentare una caldaia (non un’auto a idrogeno, che richiederebbe una compressione ulteriore a centinaia di bar), o per riconvertirlo in elettricità con una fuel cell, con rendimenti non entusiasmanti, fra il 50 e il 60%.
Visto che l’energia sprecata se ne va come calore, per gli usi domestici si può però immaginare il recupero del calore prodotto sia dall’elettrolizzatore che dalla fuel cell, così da usarlo per acqua sanitaria e riscaldamento.
«Come si vede, con il nostro elettrolizzatore invece di cedere alla rete l’elettricità prodotta in eccesso da un impianto fotovoltaico, la si può utilizzare per creare e accumulare idrogeno. Così una abitazione può farsi scorte di energia, da usare nei momenti in cui il sole non brilla, anche per periodi molto più lunghi di quelli che si potrebbero ragionevolmente coprire con batterie».
Purtroppo, i costi di questo metodo per adesso non sono molto incoraggianti.
Perini snocciola alcuni dati: «Ovviamente il conto dipende dalle condizioni su cui si va intervenire. Comunque, a spanne, il costo di un impianto domestico con una autonomia domestica di 7-10 giorni, è di 18.000 euro per due moduli del nostro elettrolizzatore, 10.000 per la fuel cell e 3.000 per le bombole. Aggiungendo il costo di almeno 5 kW di FV, e, se non si è connessi alla rete, anche quello di una batteria per la fornitura istantanea di elettricità, visto che la fuel cell richiede qualche minuto per attivarsi, si arriva a circa 40mila euro».
«È tanto – spiega – ma si deve considerare che a questo punto la casa è indipendente dal punto di vista energetico, e a parte qualche decina di euro all’anno per la manutenzione dell’impianto, tipo rabbocco acqua demineralizzata e sostituzione KOH, le spese per elettricità e calore saranno praticamente azzerate per decenni».
Nonostante i prezzi non proprio popolari, il sistema sembra aver convinto molti clienti in giro per il mondo: condomini in Thailandia, un ricco tedesco per la sua casa hi-tech, comunità in Uganda e a La Reunion, palazzi per uffici in Francia, rifugi sulle Alpi, case olandesi scaldate con idrogeno, e così via.
E in Italia?
«Abbiamo venduto il nostro elettrolizzatore solo a laboratori per la produzione diretta di idrogeno ultrapuro, ma nulla per il settore energetico. A parte i costi, da noi c’è anche un problema di normative: nonostante sia meno pericoloso del metano, o del Gpl, in quanto si disperde rapidamente, l’idrogeno è considerato un gas industriale, il che richiede per produrlo e usarlo una montagna di permessi, controlli e costi, improponibili per l’uso domestico. Speriamo che questo problema sia risolto rapidamente, perché avremmo già contatti con amministrazioni pubbliche, per valutare l’accumulo a idrogeno in scuole e palestre».
Forse per convincerli servirà anche abbassare i prezzi.
«La missione di Enapter è proprio quella: abbiamo una linea di ricerche che punta a farlo con l’ottimizzazione dei vari componenti, l’aumento dell’efficienza e la costruzione in serie di grandi volumi di impianti. Il nostro prossimo modello, chiamato “T”, previsto per il 2024, dovrebbe portare il costo dell’idrogeno da 9,5 €/kg a 4,5, facendoci fare un grande passo avanti in quella direzione. Inoltre stiamo discutendo con varie aziende di produzione di fuel cell, fra cui una italiana, per un sistema integrato “tutto in uno” ottimizzato, così da portare al massimo la semplicità di uso, l’efficienza e l’economicità. Se raggiungeremo i target che ci siamo prefissi, la rivoluzione dello storage energetico di lunga durata, anche su piccola e media scala, potrà cominciare», conclude Perini.