Settore petrolifero sotto attacco: le reazioni delle Big Oil company

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Il mondo petrolifero subirà mutamenti progressivi nelle scenario post Accordo di Parigi e i produttori se ne sono resi conto, in modalità che vanno dal furbesco al consapevole.

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Lo scenario “Net Zero by 2050: A Roadmap for the Global Energy Sector” presentato il 18 maggio dalla IEA, Agenzia che ricordiamolo era stata fondata nel 1974 dai paesi industrializzati per contrastare l’Opec, ha rappresentato un duro colpo al mondo fossile.

Sentirsi dire infatti che in uno scenario climatico non si dovrebbero avviare nuove trivellazioni oltre a quelle già previste nel 2021, rappresenta in effetti un messaggio devastante.

E forse non è solo casuale la successione di eventi dei giorni successivi.

All’assemblea annuale della Exxon c’è sempre stata una minoranza “ambientalista”, che comprendeva tra l’altro anche gli eredi del fondatore Rockefeller. Ma all’appuntamento del 2021, il 26 maggio, le posizioni climatiche si sono catalizzate attorno ad una società appena nata, Engine n. 1, che ha raccolto il consenso anche di colossi come Blackrock, imponendo la nomina di tre amministratori (su 12) sensibili alle tematiche ambientali. Il giorno dopo è toccato alla Chevron, con il 61% degli azionisti a favore di un impegno dell’azienda nel ridurre anche le emissioni “Scope 3“, cioè quelle legate all’utilizzo della benzina.

Come in un triplo jab in un incontro pugilistico, negli stessi giorni il tribunale dell’Aia ordinava alla Shell di ridurre le sue emissioni di CO2 del 45% entro il 2030, includendo anche quelle legate al consumo dei prodotti petroliferi. Si tratta del primo caso di un’imposizione legale ad una Oil company.

É interessante evidenziare le differenti motivazioni dietro questi episodi.

Nel caso della Exxon, le critiche erano legate alla consapevolezza che la politica della società avrebbe accentuato i problemi di carattere economico. Per il mondo finanziario la sopravvivenza di una società petrolifera è infatti strettamente legata alle strategie adottate nei confronti della questione climatica.

Nel caso olandese, invece, la riduzione delle emissioni coerente con gli impegni climatici globali è stata giudicata necessaria per una questione etica.  Si tratta, come è chiaro, di una sentenza molto radicale che potrebbe ispirare altre cause in giro per il mondo.

Ma un fatto è certo. Il rapporto IEA, i risultati delle assemblee negli Usa e il giudizio del tribunale olandese comporteranno un cambio di marcia deciso, certamente non voluto, del mondo fossile.

La certezza degli ultimi 150 anni di una domanda di petrolio in continua crescita è stata frantumata dalla amara consapevolezza dell’impatto della variabile  “global warming”.

Cosa succederà ora?

I barili non estratti da queste multinazionali, verranno compensati da società statali dei paesi dell’OpecPlus (Opec+, una decina di altri paesi petroliferi) o da società create ad hoc in un gioco di scatole cinesi.

Ma, allora, quali possono essere le conseguenze sul fronte climatico?

Innanzitutto va sottolineato come le compagnie europee, sollecitate dalla politica UE abbiano definito obiettivi a lungo termine coerenti (il problema serio è il percorso intermedio), mentre quelle statunitensi sono state finora reticenti. L’elezione di Biden e le rivolte degli azionisti porteranno però a cambi di strategie anche oltreoceano.

Ci sono poi diverse le riflessioni da fare dopo gli ultimi episodi.

Da un lato, infatti, ci si deve aspettare una differente allocazione degli investimenti di Exxon, Chevron e Shell, ma anche di molte altre società petrolifere, con una maggiore attenzione alle politiche di decarbonizzazione.  A parte la scelta di liberarsi di alcuni assets Oil&Gas, collocandoli in società autonome condivise con altri gruppi petroliferi, una strada percorsa anche da Eni, è chiaro che bisogna esplorare nuove strade.

La prima, indolore, sarebbe quella del CCS. Ma ricordiamo che Exxon aveva già previsto 100 miliardi di dollari per questa tecnologia, una scelta che evidentemente non ha soddisfatto le aspettative dei ”contestatori”.

Il crescente interesse nei confronti del sequestro di carbonio, dopo le decine di fallimenti dell’ultimo decennio, consentirà al CCS di ricavare un proprio spazio, ma il suo contributo sarà del tutto insufficiente.

La cattura della CO2 verrà proposta anche come servizio alle industrie con forti consumi energetici puntando poi a spedire l’anidride carbonica verso aree di iniezione nel sottosuolo. Nel caso dell’Eni, la gestione di questi flussi di anidride carbonica da smaltire nell’Adriatico sembra la strategia principale, più che la stessa produzione di idrogeno Blu.

Un’altra soluzione che viene con sempre maggiore frequenza proposta dalle Oil companies riguarda il rimboschimento, una decisione utile ma sopravvalutata. Se esso viene, infatti, effettuato su scala limitata risulta irrilevante, se riguarda larghe superfici, come nello scenario Sky 1.5 della Shell che ipotizza di piantumare un’area grande come il Brasile, le controindicazioni rispetto all’uso del territorio per l’agricoltura sono evidenti.

E poi naturalmente ci sono le rinnovabili, una soluzione che negli ultimi anni ha riscontrato un crescente successo, ma con un coinvolgimento molto differenziato tra le varie società. Total punta ad installare 100 GW verdi al 2030, BP 50 GW e l’Eni 15 GW.

Gli eventi shock di maggio comporteranno un forte potenziamento di questi investimenti, che riguarderà in maniera differenziata tutte le compagnie Oil&Gas. Un boom che contribuirà al contenimento dei consumi di metano grazie alla produzione di elettricità verde, ma con pochi riflessi sul petrolio.

Sul fronte del greggio un ruolo importante nel ridurre i consumi verrà invece svolto dalla diffusione della mobilità elettrica. Secondo l’ultimo rapporto BloombergNEF, in uno scenario Net Zero le auto elettriche al 2030 potrebbero raggiungere il 60% delle vendite a livello mondiale, un risultato ottenibile però solo con un deciso impegno da parte della politica. E della necessità di spingere di più sull’elettrico si è discusso anche al recente G7.

D’altra parte, le stazioni di ricarica avvieranno un nuovo business. Ne è consapevole, tra gli altri, la Shell che già gestisce 60.000 infrastrutture di ricarica e che punta ad averne oltre mezzo milione in giro per il mondo nel 2025.

Un ruolo nel contenimento del consumo dei combustibili verrà anche dalla progressiva eliminazione dei sussidi ai fossili (nel 2019 pari a 548 miliardi $ nei paesi del G20) e dalla possibile l’introduzione di tasse sul carbonio.

C’è poi un altro elemento da considerare.

Un terzo dell’incremento della domanda mondiale di greggio al 2030 verrà assorbito dall’industria petrolchimica, percentuale che secondo la IEA salirà al 50% nel 2050.

Ma le misure contro l’utilizzo della plastica mono uso, l’aumento del riciclo e un ruolo crescente dei biomateriali influenzeranno anche questa quota di domanda di combustibili fossili.

Insomma, il mondo petrolifero subirà mutamenti progressivi nelle scenario post Accordo di Parigi e i produttori se ne sono resi conto, in modalità che vanno dal furbesco al consapevole. Per quelli che si muoveranno con maggiore intelligenza e tempestività si apriranno nuovi modelli di business.

Un’ultima annotazione va fatta sui prezzi. L’adozione di politiche climatiche serie, coerenti con gli obiettivi di Parigi, farà impennare le quotazioni, considerando la presenza sul mercato di quantità decrescenti di greggio?

Secondo un recente studio di Wood Mackenzie avverrebbe esattamente il contrario, con 40 $ al barile nel 2030 e 15 $ nel 2050.

Un ulteriore elemento di riflessione per il mondo Oil.

L’articolo è tratto dal prossimo editoriale che apparirà sul n.3/2021 della rivista bimestrale QualEnergia

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