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Rinnovabili: piccola o grande scala, produzione locale o import, elettricità o idrogeno?

Perché si dovrà conciliare la generazione decentrata delle rinnovabili con la realizzazione di grandi impianti. Idee e progetti nel mondo.

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Per lungo tempo si è contrapposta l’alternativa tra la piccola e la grande scala per le tecnologie rinnovabili.

Una scelta che con il passare del tempo ha cambiato fisionomia. Vediamo come.

Ancora oggi, chi è contrario ai parchi eolici o alle centrali fotovoltaiche sostiene a spada tratta la necessità di puntare sull’utilizzo del solare sulle coperture degli edifici.

In effetti, il fotovoltaico si coniuga perfettamente con un utilizzo decentrato dell’energia. In Australia tre milioni di impianti garantiscono la solarizzazione di oltre un quarto degli edifici. In Italia i sistemi fotovoltaici sono quasi un milione.

Diverse città si sono date l’obiettivo di generare il 100% di elettricità verde, considerando anche una quota prodotta nell’area circostante. Prendiamo il caso di Francoforte (vedi pag. 23), le cui efficaci politiche energetiche hanno consentito tra il 1990 e il 2017 di ridurre di un quinto le emissioni climalteranti. Ora la città mira ad uscire completamente dai fossili dimezzando i consumi e garantendo che metà della domanda elettrica sia soddisfatta con le rinnovabili nell’area urbana e l’altra metà con centrali installate nelle zone circostanti.

Questo esempio ci porta a riflettere sulla necessità di conciliare la visione decentrata con la realizzazione di grandi impianti. La piccola scala favorisce il controllo dal basso da parte dei cittadini, riduce i problemi autorizzativi, elimina sostanzialmente gli impatti paesaggistici e va quindi privilegiata. Ma non è sufficiente.

Una strategia “spinta” deve infatti puntare su un mix di impianti di piccola e grande taglia.

Perché servono impianti di taglia diversa?

Spieghiamo meglio le ragioni che suggeriscono di puntare sia a impianti di piccola che su quelli di grande taglia.

La prima riguarda i tempi. La battaglia per evitare un’evoluzione incontrollata dei cambiamenti climatici si gioca nei prossimi 30 anni. Le rinnovabili coprono oggi circa un quinto della domanda di energia del pianeta. Per ridurre la dipendenza dai fossili occorre dunque accelerare notevolmente la loro diffusione, realizzando anche impianti di grande taglia.

Va poi considerato che negli scenari sulla “neutralità climatica” a metà secolo (cioè emissioni climalteranti nette nulle, fra soli 30 anni) il contributo di mega-impianti sarà assolutamente indispensabile.

Nel caso dell’Italia il governo ha valutato che nel 2050 i consumi energetici diminuiranno, ma la domanda elettrica dovrà invece raddoppiare (auto elettriche, pompe di calore, piani a induzione, ecc.), tanto che il solo fotovoltaico dovrebbe generare più elettricità di quella generata oggi in Italia da fossili e rinnovabili.

Ma l’installazione di migliaia di impianti aumenterà la pressione sul territorio. Anche perché dovremmo considerare, in aggiunta, quelle rinnovabili necessarie per l’alimentazione di elettrolizzatori destinati alla produzione di idrogeno verde.

Quindi, oltre ad una forte produzione verde su base locale, si potrebbe guardare all’estero.

Interconnessione tra Continenti: per trasportare elettricità o idrogeno?

Si riaffaccia in effetti l’idea di incrementare le interconnessioni tra vari paesi, addirittura tra Continenti. Ma la scelta non è banale. Negli scenari futuri si confronteranno due filosofie: trasportare elettricità verde o idrogeno verde?

Cerchiamo di capire opportunità e limiti delle due opzioni.

L’elettricità verde potrebbe essere utilizzata più facilmente perché il suo contributo si inserirebbe nel progressivo processo di elettrificazione dei vari paesi. Non vi è dubbio che sia per le auto che per gli edifici l’uso dell’elettricità è molto più efficiente rispetto all’idrogeno.

D’altra parte, sul medio e lungo periodo l’idrogeno sarà importante per decarbonizzare alcune industrie (acciaierie, petrolchimica, ecc.) e potrà servire anche per creare accumuli stagionali, facilitando così la completa eliminazione dei combustibili fossili.

Dietro le due scelte ci sono dunque tempistiche, modelli di sviluppo e di industrializzazione molto diversi. E potenti interessi contrapposti. Sta partendo infatti una sfida internazionale tra reti e tubi, tra i produttori di energia elettrica e i proprietari e gestori dei metanodotti.

Per questi ultimi, il progressivo passaggio all’idrogeno è ragione di vita, in un contesto che vedrà progressivamente il gas naturale uscire di scena (e non basterà il biometano a garantirne la sopravvivenza).

Peraltro, l’uso dei metanodotti non è per niente banale e comporta la soluzione di diversi problemi. Ma, si intravvede ormai una Santa Alleanza tra i gestori dei metanodotti in tutta Europa volta a rafforzare questa opzione. L’Italia potrebbe diventare “un punto di passaggio” dell’idrogeno distribuito in tutto il Continente.

L’Amministratore delegato di Snam, Marco Alverà, ha recentemente affermato: “In 5 anni l’idrogeno verde costerà sempre meno e l’Italia potrebbe in futuro importare idrogeno dal Nord Africa a un prezzo del 14% inferiore rispetto a quello prodotto in casa”.

Questo, anche grazie a progetti come la Green Hydrogen Catapult, una coalizione di sette grandi operatori mondiali che punta allo sviluppo di 25 GW di capacità produttiva di idrogeno verde al 2026, dimezzandone così gli attuali costi e portandoli sotto i 2 $ al kg.

Aumentano le proposte di interconnessioni elettriche

Gli scambi di elettricità tra diversi paesi diventeranno sempre più comuni. Già oggi avviene normalmente che gli eccessi di produzione vengano trasferiti in nazioni limitrofe. Ma in futuro si vedranno trasferimenti di grandi quantità di elettricità verde, come dimostrano diverse proposte.

E veniamo dunque ai nuovi progetti che iniziano ad affacciarsi, partendo dal recentissimo annuncio di Antípodas.

Si tratta della proposta di sfruttare le potenzialità del deserto di Atacama in Cile, una delle regioni del mondo con la più alta radiazione solare. Il presidente cileno Piñera ha spiegato che vi si potrebbe installare una potenza FV compresa tra 200 e 600 GW (per dare un’idea, in Europa a fine 2020 erano in funzione 170 GW), trasferendo la produzione attraverso un elettrodotto sottomarino di 15.000 km collegato ai paesi asiatici. Con il vantaggio che quando in Cile è giorno, nel Pacifico c’è la notte, e quando in Asia è inverno, l’emisfero Sud è invece in piena estate.

Alla conferenza sul clima COP26 di Glasgow, ad esempio, è stato presentato un progetto globale di super-rete, guidato dai governi indiano e britannico, in collaborazione con la Banca Mondiale. Il progetto prevede come primo passaggio l’interconnessione tra Medio Oriente e Asia meridionale.

E la Cina teorizza addirittura la Global Energy Interconnection (GEI), con la creazione di una rete mondiale per trasferire elettricità tra i continenti.

Meglio il nucleare o le rinnovabili? Il caso inglese

La società inglese Xlinks intende installare 10,5 GW solari ed eolici in Marocco per poi trasportare la produzione di 26 TWh/anno nel Regno Unito, che corrisponde al 7,5% della domanda del paese, attraverso un elettrodotto di 3.800 km che attraversa i mari di Spagna, Portogallo e Francia.

La produzione solare dei moduli FV dovrebbe essere tripla rispetto a quella di moduli installati in UK. Ma c’è di più, grazie alle batterie, il sistema è in grado di inviare per almeno 20 ore al giorno elettricità a pieno regime nel Regno Unito.

L’altro aspetto interessante riguarda il basso costo stimato dei kWh solari, pari a 0,059 €, cioè molto meno, circa la metà, rispetto al costo di generazione del reattore nucleare di Hinkley Point in costruzione nel Regno Unito, per il quale si prevede una produzione elettrica analoga a quella proveniente dal Marocco. Con il risultato che mentre per il progetto di energia rinnovabile non si prevedono incentivi da parte dello Stato, l’elettricità nucleare peserà notevolmente sulle tariffe dei britannici.

In aggiunta, va sottolineato il notevole successo che sta ottenendo l’eolico offshore britannico, anche in questo caso con costi bassi e decrescenti.

Esportazione di idrogeno verde

Ci sono anche diversi progetti per produrre idrogeno verde e poi esportarlo, magari via nave sotto forma di ammoniaca.

L’Arabia Saudita, ad esempio, intende investire 5 miliardi di dollari nel progetto Helios per la produzione a basso costo di H2 verde da trasportare in Europa o in Asia.

Anche l’Australia si appresta a diventare una superpotenza nella produzione ed esportazione di idrogeno verde. Si sta ragionando, ad esempio, su un progetto nel nord-ovest del paese da 11.000 MW solari ed eolici su una superficie di 7.000 kmq, chiamato Asia Renewable Energy Hub, pensato per esportare sul medio e lungo periodo l’idrogeno a Giappone e Cina.

Secondo il Consiglio mondiale dell’energia sono ben 41 le partnership import-export di idrogeno proposte in tutto il mondo dal 2017, per la maggior parte emerse negli ultimi due anni. Germania, Giappone e Corea del Sud sono tra i paesi più attenti a questa prospettiva.

Il governo tedesco, in particolare, ha lanciato l’iniziativa H2Global per le importazioni di idrogeno verde, investendo 2 miliardi € per supportare progetti di elettrolizzatori all’estero. Berlino ha avviato quindi contatti con una molteplicità di paesi, dall’Islanda alla Namibia, dall’Australia al Cile.

In conclusione, siamo in una fase che vede un ribollire di progetti e investimenti facilitati dagli impegni della maggioranza dei paesi di raggiungere la neutralità climatica. Alla base di questo fervore ci sono tecnologie rinnovabili sempre più competitive.

Ma l’utilizzo delle varie tipologie di interconnessione aprirà scenari geopolitici completamente nuovi anche per noi.

Scenari italiani

Le connessioni elettriche tra l’Italia e i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, procederà senz’altro. Un collegamento tra Sicilia e Tunisia, peraltro, è già previsto.

Per quanto riguarda invece il progetto di una rete europea dell’idrogeno (i 23 operatori europei pensano di riadattare ben 48.000 km di metanodotti entro il 2040), la sua fattibilità passa dalla effettiva possibilità di un suo efficace utilizzo. In mancanza di una seria domanda di idrogeno, questa idea dovrà quindi certamente ridimensionarsi.

Ma lo scontro tra reti e tubi continuerà. Una cosa si può comunque già dire. L’abbondanza di rinnovabili e la presenza di una quota di idrogeno metterà fuori gioco, o ridimensionerà, le varie ipotesi di ritorno o di potenziamento del nucleare.

Il nostro paese dovrà quindi saper gestire con intelligenza le sue scelte, al momento ancora estremamente vaghe, per rendere fattibile il percorso verso la decarbonizzazione al 2050.

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