Perché nel 2020 il carbone è già finito sott’acqua (quella di un ghiacciaio sciolto)

  • 4 Agosto 2020

E nei primi sei mesi dell'anno, per la prima volta, gli impianti a carbone dismessi nel mondo sono stati più di quelli nuovi entrati in funzione. Dati e considerazioni.

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Il 2020 è un anno decisamente poco fortunato per il carbone.

Sulle isole Svalbard, l’ultima miniera di carbone operativa in Norvegia – fornisce circa 30.000 tonnellate l’anno di combustibile fossile alla centrale elettrica locale, più circa 80.000 tonnellate di materia prima esportata in Europa – è stata allagata a causa dello scioglimento del ghiacciaio che ricopre la montagna, presso la cittadina di Longyearbyen.

L’acqua disciolta è penetrata nelle rocce fin dentro i cunicoli e i pozzi; la compagnia mineraria che gestisce il sito, Store Norske, ha provato a liberare la miniera attivando le pompe idrauliche ma finora senza successo, come informa una nota della stessa compagnia.

E il ghiaccio si è fuso, e continua a farlo, perché il cambiamento climatico – innescato dall’uso massiccio di carbone e altre fonti fossili in tutto il mondo – ha portato a temperature sempre più bollenti nell’artico europeo, temperature che nei giorni scorsi hanno sfiorato 22 gradi centigradi a Longyearbyen.

Tra le conseguenze dell’ondata di caldo anomalo nelle regioni artiche – vale la pena ricordare il picco di 38 gradi registrato in Siberia lo scorso giugno, a Verkhoiansk – c’è anche l’assottigliamento del permafrost, che a sua volta provoca instabilità nelle fondamenta delle costruzioni e fa aumentare le fughe di metano, un potente gas-serra, intrappolato nel terreno che nei decenni passati era perennemente ghiacciato.

Senza dimenticare che con meno ghiaccio e meno neve c’è meno superficie bianca in grado di riflettere i raggi solari, quindi il terreno e il mare finiscono per assorbire sempre più calore.

Insomma in Norvegia, nella miniera di carbone di Longyearbyen, pare di assistere a una legge del contrappasso in miniatura.

Ecco cosa può succedere se si continua a ignorare la velocità con cui sta cambiando il clima globale.

Ma il 2020 è anche l’anno in cui, per la prima volta, il carbone “ritirato” dalla scena mondiale ha superato il nuovo carbone. In altre parole, tra gennaio e giugno 2020, le centrali a carbone dismesse sono state più di quelle entrate in funzione: 21,2 GW contro 18,3 GW rispettivamente, con una perdita netta di 2,9 GW di capacità a livello mondiale.

Non era mai accaduto prima.

Il grafico sotto, rielaborato da Carbon Brief sui dati del Global Coal Plant Tracker del Global Energy Monitor, riassume la situazione.

Certo, è ancora troppo poco per cantare vittoria contro la fonte fossile più inquinante, perché i dati dicono pure che ci sono quasi 190 GW di nuovi impianti a carbone tuttora in costruzione nel mondo, e quasi 332 GW pianificati, soprattutto perché la Cina non ha mai smesso di puntare su questa risorsa energetica; vedi anche l’articolo In Cina era carbone, è carbone e sarà carbone.

Però dal 2000 al 2019 la potenza totale installata nel carbone era cresciuta in media di circa 25 GW ogni sei mesi.

Per il calo del primo semestre 2020, scrive Christine Shearer del Global Energy Monitor in un’analisi pubblicata su Carbon Brief, si deve ringraziare soprattutto l’Europa più la Gran Bretagna, dove in totale si sono persi 8,3 GW di capacità nel carbone da gennaio a giugno.

D’altronde, l’Europa sta perseguendo, con poche eccezioni nei paesi dell’est, una politica di uscita graduale dal carbone e ciò spiega le chiusure di molti impianti, accelerate dall’emergenza coronavirus; il crollo della domanda elettrica nel lockdown ha colpito in primo luogo le fonti fossili, per via dei costi operativi più alti in confronto all’eolico e al fotovoltaico.

Difatti, per la prima volta, in Europa in sei mesi le rinnovabili hanno generato più energia elettrica di tutte le fonti fossili messe insieme, con una discesa particolarmente accentuata proprio per il carbone, che ha perso più del 30% di produzione elettrica in confronto a gennaio-giugno del 2019.

Il problema maggiore resta la Cina, che da sola vale esattamente metà di tutta la potenza installata nel mondo nelle centrali a carbone, 1.022 GW su 2.047 GW, e vale anche il 48% di tutta la capacità a carbone in costruzione/pianificata su scala globale (parliamo di 252 GW in Cina su 522 GW complessivi).

Il punto è che finora, anche se le rinnovabili sono super-competitive rispetto alle fonti fossili e in buona parte del Pianeta conviene investire in rinnovabili piuttosto che in carbone e gas, il carbone ha resistito all’assalto “verde”.

Allora la domanda è se la “prima volta” del 2020 avrà inaugurato una tendenza di più rapida e duratura uscita dal carbone, oppure se molti paesi, Cina in primis, continueranno a investire sul fossile, gravato però dal rischio di stranded asset, cioè di ritrovarsi con investimenti “incagliati”, nel senso di improduttivi perché schiacciati dalla concorrenza attuale e futura delle rinnovabili.

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