I nuovi rigassificatori e la spesa fatta quando si ha fame

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Come i famigerati banchi a rotelle, queste infrastrutture si riveleranno ridondanti nei prossimi anni, con tanti interrogativi su chi paghera i costi, prevede il think tank Ecco.

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Nelle elezioni 2022 le forze in campo sono chiamate a esporre la propria visione sui cambiamenti climatici. Lo sviluppo di nuove infrastrutture energetiche è strettamente legato alla politica del clima. Dare una risposta nel breve periodo alla crisi russa non sottrae la politica dallo spiegare come conciliare l’emergenza con la transizione energetica. Non farlo – facendo leva sul consenso di quanti, esasperati dall’immobilismo italiano, sono a favore delle infrastrutture a prescindere – nei fatti moltiplicherà i costi dell’energia, questo in particolare nel settore del gas.

Questa la premessa dell’analisi che ECCO, think tank italiano specializzato sulla questione clima energia, ha pubblicato nei giorni scorsi sulla questione rigassificatori e che riproponiamo qui.

Snam – si spiega  – ha già comprato due rigassificatori per una spesa di oltre 700 milioni di euro alla quale si dovrà aggiungere il valore del gas per tutta la durata dei contratti sottoscritti con i nuovi fornitori. Eppure, se gli impegni sulla transizione verranno rispettati, le rinnovabili sostituiranno oltre l’80% delle attuali importazioni russe al 2035.

“Il dibattito ‘rigassificatori sì o no’, non è politica ma più una conversazione da bar“, osservano gli analisti di ECCO. La politica deve spiegare come si conciliano queste nuove infrastrutture con gli obiettivi di decarbonizzazione, e cosa si pensa di fare in futuro della nuova infrastruttura, dei contratti e delle relazioni commerciali con i nuovi fornitori, in particolare nel caso in cui le forniture dalla Russia non cessino e riprendano come un elemento sostanziale per ristabilire la pace in Europa, fino al raggiungimento degli obiettivi di RepowerEU.

Nuove infrastrutture gas significano ritardare lo sviluppo delle rinnovabili? O credere che l’efficienza sia un complemento d’arredo? Se non è così, a chi spetta pagare i costi di questa ridondanza di infrastrutture – agli azionisti, ai contribuenti o ai consumatori? Oppure si pensa di esportare gas in Europa nel prossimo decennio, come se la Germania non avesse i nostri stessi o più ambiziosi obiettivi? Quali sono le garanzie che l’infrastruttura gas sia l’opzione più efficace a gestire la crisi rispetto ai tempi di realizzazione e allo sviluppo di alternative?

Anche in termini di riempimento degli stoccaggi – prosegue l’analisi –  sembra che nessuno si stia occupando del rischio economico per i consumatori. È in corso un massiccio intervento dello Stato per l’acquisto di gas sulle piattaforme internazionali a prezzi elevatissimi, di cui gli operatori di mercato non si sarebbero fatti carico, finanziato con un prestito di 4 miliardi di euro del Tesoro a una sua controllata, il Gestore dei Servizi Energetici (Gse) che in coordinamento con Snam gestisce l’operazione. In quanto tale, il prestito non incide (per ora) sui saldi di finanza pubblica, ma è di fatto debito per i consumatori e i contribuenti.

Mai fare la spesa quando si ha fame, insegnano i dietologi. Forse dovremmo tenerne conto anche nel settore dell’energia e in generale in quello delle infrastrutture. Il rischio di reazioni avventate alla crisi dei prezzi dell’energia in termini di dimensione, durata temporale e mancata attenzione ai costi delle azioni rischia di danneggiarci quanto o più già facciano i prezzi”, scrivono dal think tank.

Lo stesso vale per la decisione, anch’essa avventata e a forte rischio di autolesionismo, di investire in un sistema europeo e italiano che non faccia più affidamento sul gas russo a tempo indeterminato. Quanto è credibile – chiedono gli analisti di ECCO – che decidiamo domani – magari a situazione internazionale normalizzata – di operare quella chiusura dei rubinetti che né l’Europa né gran parte dei suoi Stati membri hanno avuto il coraggio o l’interesse di attuare fino a oggi, nemmeno sull’onda dello shock dell’invasione dell’Ucraina? Eppure, su questo assunto stiamo costruendo la strategia per la sicurezza energetica, con tutti i costi e rischi conseguenti.

Un conto – osserva il think tank – è diversificare dal gas russo anticipando lo sviluppo delle rinnovabili e l’efficienza energetica, che sono misure comunque necessarie per raggiungere i nuovi obiettivi di decarbonizzazione europei e il cui valore dell’investimento, oltre a contribuire a ridurre la dipendenza dal gas russo nel breve, si mantiene in uno scenario coerente con la strategia di lungo periodo, un conto è lo sviluppo di nuova infrastruttura gas che al contrario verrà resa ridondante nei prossimi anni dalle politiche di decarbonizzazione.

I due rigassificatori galleggianti (Floating Storage Regasification Unit o FSRU) che Snam ha acquistato arriveranno, secondo le dichiarazioni del Governo, quando almeno il primo – e più insidioso – degli inverni a rischio sarà già terminato. L’acquisto – sottolinea l’analisi di ECCO –  è avvenuto in assenza di informazioni pubbliche su come queste infrastrutture saranno gestite e ripagate: saranno considerate rete e ripagate in tariffa? Saranno cedute a operatori terzi per la loro gestione? Saranno finanziate direttamente con le tasse? Ciò che è certo è che il decreto (poi legge) “aiuti” ha istituito un fondo di garanzia per le eventuali perdite di Snam e una corsia preferenziale per l’autorizzazione delle opere necessarie.

Un’infrastruttura fatta per durare decenni si presume abbia prospettive altrettanto lunghe di utilizzo. Tuttavia, è difficile supporre questo per i nuovi FSRU. In primis, poiché l’Italia è impegnata al 2035 a dismettere sostanzialmente l’utilizzo del gas per la produzione termoelettrica (che oggi vale circa un terzo dei consumi) come da decisione in sede G7.

In secondo luogo, poiché il Governo si è posto l’obiettivo 2030 per la penetrazione delle rinnovabili elettriche di oltre il 70% seppure, su questo punto, l’industria dell’energia ritenga fattibili valori oltre l’80%. Si tratta di politiche che comportano una riduzione d’uso di gas termoelettrico da un minimo di 15 miliardi di metri cubi l’anno a circa 25 miliardi, valore quest’ultimo paragonabile all’intero import pre-crisi dalla Russia. Una tendenza a cui si aggiungono le politiche di efficientamento degli edifici e l’elettrificazione dei sistemi di riscaldamento e produzione del calore, nonché lo sviluppo di biogas che non avrà bisogno di porti.

I consumi italiani di giugno 2022 del gas per usi residenziali e industriali si sono ridotti rispetto a un anno prima di quasi il 10%. Se non fosse per l’eccezionale siccità, e la conseguente indisponibilità di energia idroelettrica, la riduzione di volumi complessivi tendenziale sarebbe già superiore a quanto l’UE può chiederci secondo il piano di risparmio approvato a fine luglio 2022.

Tutto questo, in un contesto di ridondanza della capacità di importazione via tubo. Solo il TAP oggi funziona a pieno regime tra i gasdotti di interconnessione verso l’Italia. E se è vero quindi che l’Italia si inserisce in un’infrastruttura gas europea ormai molto interconnessa, occorre anche ammettere che è semmai la sicurezza energetica europea, più che quella italiana, che investimenti avventati e costosi per le tasche italiane stanno mirando a proteggere.

L’Italia rischia quindi di fare investimenti onerosi, privi di una valutazione economica (non risultano criteri pubblici per valutarli né alcuna preoccupazione del Governo rispetto all’efficienza della spesa) per scongiurare un rischio di razionamenti ma ignorando che la domanda di gas è destinata a ridursi. Implementando le politiche europee al 2030, la domanda di gas è attesa in calo del 30-40% rispetto ad oggi.

Poco dovrebbe tranquillizzarci il fatto che i rigassificatori galleggianti possano essere rimossi e rivenduti, perché il danno economico di rivendere un asset quando la sua utilità si sarà ridotta anche per qualunque altro acquirente sarà ineludibile. Interessante, da questo punto di vista, osservare che il Governo tedesco ha sì acquisito la disponibilità di impianti di rigassificazione, ma l’ha fatto noleggiandoli, non acquistandoli.

Alla irrecuperabilità dei costi di asset fisici che potrebbero rivelarsi presto ridondanti, si aggiunge quella legata ad accordi commerciali di lungo termine che il Governo afferma di aver intrapreso (a proprio nome? A nome delle partecipate? Garantendone il rispetto con risorse pubbliche?). Esistono clausole d’uscita da questi accordi se la crisi si risolverà (e si risolverà se l’Italia e l’Europa faranno ciò che è da tempo stabilito con il REPowerEU)? Quanto impattano queste clausole in termini di rischio per i contribuenti e per i clienti di energia?

Purtroppo, le criticità non finiscono qui. C’è anche qualcosa di peggio, che esula dalla saggezza del sopra citato dietologo. Infrastrutture sbagliate e ridondanti rischiano di alimentare e protrarre politiche anch’esse sbagliate. Infatti, non è inverosimile che al momento di ammettere, tra qualche anno, che i due FSRU ormeggiati a Piombino e Ravenna non serviranno più, chi ha interesse alla loro operatività, o anche solo a non attribuirsi l’imbarazzo politico della loro dismissione, faccia con successo pressioni perché l’economia del gas prosegua, arrecando danno al clima e ritardando la transizione verso un sistema energetico emancipato dalla volatilità di prezzo e dall’insicurezza delle fonti fossili.

Per mitigare questi rischi – ausoicano gli analisti di ECCO –  serve per quanto possibile limitare le rigidità delle decisioni già prese e riconsiderare quelle da prendere in una prospettiva più lunga che tenga conto delle politiche del clima. Ora che i rigassificatori sono stati comprati, serve chiarirne il regime di utilizzo nel modo più trasparente possibile e accelerare la loro integrazione nei piani di sviluppo di Snam per valutarne, seppur tardivamente, l’utilità secondo i processi di governance esistenti, eventualmente interrompendo l’installazione della seconda nave se le valutazioni di Arera e Governo fossero negative.

Valutazioni che non possono prescindere dalla coerenza rispetto alle politiche del clima. Un aspetto a cui “l’agenda Draghi” non ha dato la priorità necessaria e che dovrebbe essere recuperato anche dai suoi promotori e dal futuro nuovo Governo.

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