Un numero crescente di megaprogetti ha cercato negli ultimi vent’anni di convogliare energia rinnovabile da aree remote e soleggiate, come il Sahara o l’outback australiano, verso i grandi centri di consumo.
Ma tra costi elevati, incertezze politiche e modelli economici fragili, quasi nessuno di questi tentativi ha raggiunto i propri obiettivi.
L’ultimo a vacillare è stato Xlinks, il gigantesco cavo sottomarino da 25 miliardi di sterline tra Marocco e Regno Unito, ora sospeso dopo che il governo britannico ha annunciato il ritiro del suo sostegno finanziario.
Strategie ambiziose, basi tecniche solide, ma politiche deboli
Delocalizzare la produzione di energia significa costruire grandi impianti rinnovabili in zone con risorse naturali eccezionali per trasmettere l’elettricità fino ai centri di domanda attraverso linee ad alta tensione in corrente continua (HVDC).
In teoria, il potenziale è enorme: i deserti ricevono in sei ore più energia solare di quanta l’umanità consumi in un anno. La tecnologia HVDC è ormai matura, già usata, ad esempio, per interconnettere Norvegia e Regno Unito o Cina e Mongolia. Eppure, quando si tratta di unire continenti o superare migliaia di chilometri via terra e mare, entrano in gioco fattori politici, economici e geopolitici che ne complicano molto la realizzazione.
Più di una dozzina di iniziative su scala continentale ha cercato di trasformare quest’idea in realtà negli ultimi decenni. Ma quasi tutte si sono arenate. Gli unici sviluppi concreti sono oggi progetti ridimensionati o trasformati, e interconnessioni bilaterali più modeste, come il cavo Italia-Tunisia (TUNITA) da 600 MW, cofinanziato dall’Ue nel 2023.
Desertec: il sogno sahariano che non superò il 2013
Il progetto Desertec, lanciato nel 2009 da un consorzio di aziende tedesche, voleva coprire fino al 20% della domanda elettrica europea al 2050 con impianti solari nel Deserto del Sahara. Il piano prevedeva centrali a concentrazione solare (CSP) con accumulo termico, collegate all’Europa tramite cavi HVDC.
Il progetto fu sostenuto da E.ON, Siemens, Deutsche Bank e Munich Re, ma si arenò nel 2013 per una combinazione di fattori: costi enormi (oltre 400 mld €), instabilità politica post-Primavere arabe, assenza di accordi vincolanti con i paesi di transito mediterranei e nord-africani, e timori europei legati alla dipendenza geopolitica.
Come osservò già allora Hermann Scheer, parlamentare tedesco e fondatore di Eurosolar, “l’idea di una generazione centralizzata su larga scala era costosa e non necessaria”, insomma un approccio ai limiti di un nuovo colonialismo energetico, criticava Scheer (vedere anche Desertec, cos’è successo a quel mega progetto che voleva portare energia verde dal Nord Africa all’Europa).
Medgrid e TuNur: meno ambiziosi, stesso destino
Medgrid, promosso nel 2010 dal governo francese, mirava a costruire un’infrastruttura di cavi HVDC per trasferire 5 GW dal Nord Africa all’Europa. Supportato da 20 aziende europee, fu concepito come complemento tecnico di Desertec. Ma la chiusura di quest’ultimo e l’assenza di fondi portarono Medgrid a fermarsi nel 2016, dopo aver prodotto solo studi preliminari.
TuNur, invece, è un progetto ancora formalmente in piedi: vuole esportare 4,5 GW di energia solare termodinamica, cioè CSP, dalla Tunisia a Malta, Italia e Francia. Annunciato nel 2017 dalla società anglo-maltese Nur Energie, non è stato però seguito da sviluppi concreti. L’assenza di acquirenti europei, i ritardi normativi in Tunisia e le critiche locali sul rischio di neocolonialismo ne hanno bloccato l’avanzamento.
Oggi TuNur si sta orientando verso l’idrogeno verde: l’energia solare servirebbe non a produrre elettricità da esportare via cavo, ma idrogeno o ammoniaca da spedire via nave. È un cambio di paradigma che rischia di fare un altro buco nell’acqua, visti i problemi tecnici, logistici ed economici che l’idrogeno verde e i suoi derivati comportano, con poche eccezioni.
Gobitec e Asian Super Grid: grandi visioni, zero megawatt
Nata nel 2009, l’idea Gobitec proponeva di sfruttare le risorse eoliche e solari della Mongolia e del nord della Cina per alimentare Corea del Sud, Giappone e altri paesi asiatici. Il progetto si è poi fuso nella più ampia visione dell’Asian Super Grid, sostenuta dal fondatore di SoftBank, Masayoshi Son.
Ma anche questo progetto è rimasto sulla carta. Le relazioni tra i paesi asiatici coinvolti, cioè Cina, Giappone, Corea e Russia, sono spesso conflittuali.
Nessun cavo è stato costruito. E la mancanza di una struttura di cooperazione politica paragonabile all’Unione Europea ha impedito di trasformare le intese verbali in realtà operative.
Sun Cable: il mega-cavo australiano che ha cambiato rotta
Nel 2019, la startup australiana Sun Cable ha annunciato l’Australia-Asia Power Link: 20 GW di fotovoltaico, 36 GWh di batterie e un cavo di 4.200 km per trasportare 3 GW da Darwin a Singapore, con l’obiettivo di coprire il 15% della domanda elettrica di Singapore.
Il progetto è stato dichiarato insolvente nel 2023, dopo uno scontro tra due investitori miliardari privati, Andrew Forrest e Mike Cannon-Brookes. Il secondo ha rilevato gli asset e rilanciato il progetto in forma ridotta, con 6 GW di fotovoltaico e 900 MW per Darwin, e 1,8 GW per Singapore entro il 2030.
L’interesse e il progetto, in questo caso, rimangono in piedi, ma senza un contratto di acquisto vincolante con Singapore, l’iniziativa resta ad alto rischio. Anche il passaggio dei cavi attraverso le acque indonesiane comporta diverse complessità geopolitiche non trascurabili.
Xlinks: elettricità marocchina per l’UK, progetto sospeso
Come accennato, Xlinks è il progetto più recente e, almeno fino a pochi giorni fa, uno dei più promettenti. Prevede 10,5 GW di capacità installata in Marocco (7 GW fotovoltaici e 3,5 GW eolici), un sistema di accumulo da 5 GW e quattro cavi HVDC da 3.800 km fino al Devon, in Inghilterra.
Un flusso stabile da 3,6 GW per almeno 20 ore al giorno, coprirebbe l’8% della domanda britannica, riducendo del 10% le emissioni del settore elettrico e abbassando i prezzi all’ingrosso del 9%, secondo l’azienda. Nell’illustrazione, tratta dal sito di Xlinks, il percorso previsto del cavo.
Finanziato da TAQA, Octopus Energy e TotalEnergies, il progetto richiedeva però un contratto per differenza (CfD) col governo britannico. Il 26 giugno scorso, il Dipartimento per l’Energia del Regno Unito ha annunciato però di non volerlo concedere, definendo l’impresa troppo rischiosa e preferendo puntare sull’eolico offshore domestico e sul nucleare.
“La decisione ci ha sorpreso e deluso profondamente”, ha dichiarato Dave Lewis, presidente di Xlinks, in una nota.
Alternative per Xlinks?
L’azienda sta ora cercando soluzioni alternative: una possibilità consiste nel riorientare il progetto verso l’Europa continentale, collegandosi alla rete elettrica tramite la Spagna o la Francia.
Il Marocco è già interconnesso con la Spagna attraverso due cavi sottomarini attivi e un terzo in fase di sviluppo. A sua volta, la Spagna è connessa con la Francia, e la Francia con il Regno Unito tramite tre cavi HVDC per oltre 3 GW complessivi.
In teoria, Xlinks potrebbe vendere l’energia al mercato europeo continentale, o perfino inoltrarla fino al Regno Unito attraverso la rete esistente, anche se con costi e complessità maggiori.
Ma questa soluzione richiederebbe nuove autorizzazioni nazionali, l’accesso regolato alle reti europee e l’assenza di congestioni. Inoltre, in assenza di un contratto a lungo termine con un acquirente definito, il progetto resterebbe esposto alla volatilità del mercato e alla concorrenza interna europea.
È una strada tecnicamente praticabile, ma molto più incerta dal punto di vista commerciale e regolatorio rispetto a un collegamento diretto con il supporto del governo britannico.
Le lezioni che dobbiamo capire
Dalle esperienze analizzate sembrano emergere tre lezioni fondamentali per far funzionare questi progetti, spesso sottolineate anche da analisti del settore e think tank internazionali.
La prima è la necessità di un modello economico chiaro e bancabile. Come evidenziato da Agora Energiewende, Carbon Tracker e Aurora Energy Research, senza contratti a lungo termine come i CfD o gli accordi di acquisto PPA, i progetti su larga scala non riescono ad attrarre i capitali necessari. È quanto accaduto a Xlinks dopo la decisione del governo britannico di non garantire un prezzo minimo per l’energia, ma anche a Desertec e Sun Cable, fermati dall’incertezza sul ritorno economico.
La seconda riguarda la fiducia politica e la cooperazione tra paesi. Interconnessioni così ambiziose creano una forma di dipendenza reciproca: un cavo HVDC è un legame infrastrutturale profondo, che richiede stabilità e allineamento strategico. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea) e Chatham House hanno più volte sottolineato che senza un quadro multilaterale affidabile, come quello offerto in Europa dall’Unione dell’Energia, i progetti tendono a incepparsi. Lo dimostrano i casi asiatici: Gobitec e l’Asian Super Grid non sono mai decollati proprio per le tensioni geopolitiche persistenti tra Cina, Giappone e Corea.
La terza lezione riguarda il tempismo tecnologico e competitivo. Secondo Oxford Energy Institute e RMI, oggi molti Paesi possono sviluppare rinnovabili a basso costo localmente. Per essere economicamente giustificabili, le importazioni di elettricità da altre regioni devono quindi offrire un valore aggiunto: continuità, stagionalità opposta, integrazione con lo storage. Progetti come Xlinks e Sun Cable hanno cercato di rispondere a questa esigenza integrando solare, eolico e accumulo per garantire una fornitura stabile. Ma se il vantaggio rispetto alle risorse interne non è evidente, la preferenza politica tende a spostarsi verso soluzioni “domestiche”.
Come ha sintetizzato l’Iea, “ritardare le infrastrutture di connessione equivale a ritardare la transizione energetica”. I megaprogetti di delocalizzazione possono ancora giocare un ruolo, ma solo se affrontano con lucidità queste tre condizioni: sostenibilità economica, fiducia politica e complementarità tecnica.
Progetti più piccoli, reti regionali
Il futuro della delocalizzazione energetica potrebbe non avere quindi così tanto bisogno di mega-cavi da 25 miliardi fra frontiere distanti molte migliaia di chilometri. Potrebbero bastare ed essere molto più efficaci interconnessioni più modulari e di natura regionale.
Vedremo se, su questa falsariga, il cavo Tunisia-Italia cofinanziato dall’Unione europea avrà successo.
La sfida è riuscire ad armonizzare molti aspetti diversi, non ultimi quelli dell’equità sociale, evitando dinamiche neocoloniali, garantendo benefici anche ai paesi produttori, e integrando sviluppo locale, occupazione e transizione energetica sulle diverse sponde e territori attraversati dai progetti.
A oltre vent’anni dall’idea di Desertec, però, la prova dei fatti ci dice che il mondo non è ancora maturo per una rete energetica globalizzata. E visti i rigurgiti antiglobalizzazione in corso, nel breve-medio termine questi tipi di progetti potrebbe incontrare ancora molte difficoltà.