Desertec, cos’è successo a quel mega progetto che voleva portare energia verde dal Nord Africa all’Europa

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Un breve riassunto di oltre 12 anni di storia e di un’idea che continua ad evolversi con l’obiettivo di una maggiore diffusione delle rinnovabili.

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Chi da anni opera nel campo delle energie rinnovabili si ricorderà di Desertec, un progetto visionario e su larga scala che una fondazione dello stesso nome e il consorzio Dii (Desertec industrial initiative) lanciarono dalla Germania nel 2009.

Il progetto mirava a una strategia globale per la generazione di energia rinnovabile direttamente nei luoghi del mondo dove questa è più abbondante – come la fonte solare nei deserti – per poi trasferirla sotto forma di corrente continua ad alta tensione verso i centri di consumo, come per esempio l’Europa.

Sebbene la strategia prevedesse l’utilizzo di vari tipi di energia rinnovabile, a catturare l’attenzione collettiva fu soprattutto l’immagine mentale di deserti con distese di impianti solari a concentrazione e fotovoltaici, che in effetti rappresentavano il nocciolo del progetto.

L’idea era che entro il 2050 si sarebbe potuto generare abbastanza elettricità rinnovabile nei deserti del Nord Africa e del Medio Oriente da coprire circa due terzi della domanda locale e allo stesso tempo soddisfare il 15% delle esigenze elettriche dell’Europa.

A oltre 12 anni di distanza dai primi entusiasti titoli di giornale, che fine ha fatto Desertec?

Cerchiamo di fare qui un breve excursus, partendo però da molto più lontano. Alcuni hanno infatti visto dei parallelismi tra Desertec e il progetto Atlantropa degli anni ’20 del secolo scorso – i cui echi, vedremo, sancirono poi la trasformazione della prima versione di Desertec a pochi anni dal suo lancio.

Atlantropa, chiamata anche Panropa, era un gigantesco progetto ingegneristico e di colonizzazione ideato dall’architetto tedesco Herman Sörgel un secolo fa. L’idea era quella di creare diverse dighe idroelettriche in punti chiave del Mar Mediterraneo, come lo stretto di Gibilterra e il Bosforo, per provocare un abbassamento del livello del mare e creare nuove terre da colonizzare. Doveva essere una sorta di alternativa paneuropea e pacifica al concetto di “spazio vitale” della Germania nazista.

Sebbene Desertec e Dii siano nate con una visione più pragmatica di sviluppo delle rinnovabili e integrazione delle reti continentali (una supergrid a corrente continua), all’indomani del suo lancio, i critici misero subito in luce che potesse essere facilmente interpretato come un progetto dai risvolti neo-coloniali, una nuova forma di “estrazione”, di sfruttamento dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi e un modello energetico sempre basato sulla centralizzazione della produzione.

Nel giro di pochi anni, nel 2014-2015, i media tedeschi parlavano apertamente del “fallimento” di Dii e del concetto di Desertec. Ma, nonostante, una buona parte dei membri di allora decise di abbandonare Dii alla fine del 2014, il consorzio non sparì e seppe rinnovarsi in una versione 2.0 di sé stesso.

Cornelius Matthes

“Nei primi anni il progetto era centrato soprattutto su come ottenere elettricità per l’Europa”, ha detto Cornelius Matthes, amministratore delegato di Dii Desert Energy a QualEnergia.it.

Col tempo “abbiamo imparato tante cose. In primis, mettere i paesi [di Medio Oriente e Nord Africa] al centro, guardare ai benefici dei paesi stessi, puntare sulla creazione di posti di lavoro, ai fattori socio-economici fondamentali; avere i paesi coinvolti”.

A riprova di questa nuova consapevolezza, Dii ha trasferito la propria sede da Monaco di Baviera a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, nel 2015, per concentrarsi sulla cosiddetta regione Mena (Medio Oriente – Nord Africa) in una configurazione Desertec 2.0, incentrata appunto sull’incrocio di domanda e offerta locale di energia e lavoro.

La seconda incarnazione di Desertec aveva quindi obiettivi molto pragmatici, consistenti nel creare condizioni favorevoli allo sviluppo di progetti solari ed eolici nell’area Mena.

“Era un consorzio anche troppo tedesco all’inizio”, ha detto Matthes. “Abbiamo lavorato intensamente nel renderlo molto più internazionale e adesso ci sono società e organizzazioni di 25 paesi che ne fanno parte, molte delle quali dell’area Mena stessa”.

Fra questi, sono compresi molti soggetti pubblici o privati di paesi come Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Algeria, Egitto ed Emirati Arabi Uniti che lavorano a stretto contatto con Dii, oltre a paesi europei come Italia, Germania, Spagna e Francia o paesi asiatici come la Cina.

Oggi, nella sua ultima versione 3.0, Dii si definisce un consorzio con funzione di centro studi, formato non più principalmente da aziende impiantistiche o produttrici di tecnologie, ma anche da utility, università, istituzioni governative, sviluppatori, investitori, eccetera.

L’obiettivo di questa ultima incarnazione di Desertec è favorire la creazione e integrazione di catene di valore di energia senza emissioni, caratterizzate da una sempre maggiore flessibilità di domanda, offerta, stoccaggio, trasporto e scambio di quelli che chiama “elettroni verdi” e “molecole verdi”, in primis all’interno della regione Mena e poi anche da tale regione verso altri mercati a livello globale.

È cambiato quindi sia il baricentro dell’azione di Desertec, passato dall’Europa al Nord Africa e Medio Oriente, sia il ventaglio di tecnologie considerate, che adesso includono, per esempio,anche l’idrogeno verde, l’ammoniaca e altri prodotti sintetici verdi.

“Anche il più grande ottimista non avrebbe potuto prevedere che in un decennio l’energia solare ed eolica potessero diventare una storia di successo così grande, con così tanti progetti operativi”, ha detto Matthes.

“Il fatto di poter produrre un kWh di energia solare, per esempio, in Arabia Saudita con bandi di gara recenti sotto un centesimo di euro, o di eolico nello stesso paese per poco più di 1,5 centesimi, è una vera rivoluzione e mette l’area Mena al centro della transizione energetica”.

Sul fronte delle nuove tecnologie, Dii ha formato l’anno scorso la “Mena Hydrogen Alliance” per accelerare lo sviluppo di catene di valore per le “molecole verdi” nella regione, riunendo soggetti privati, pubblici e del mondo accademico. L’obiettivo è quello di agire come consulente neutrale per elaborare casi di business ed educare i diversi attori su tutti gli aspetti tecnico-economici della produzione, del trasporto e dell’utilizzo dell’idrogeno verde e di altri combustibili a zero emissioni.

Alcuni dei settori più promettenti per l’uso dell’idrogeno verde, secondo Matthes, sono quelli dell’acciaio, responsabile del 7% delle emissioni mondiali, e della produzione di ammoniaca, da cui si ricavano i fertilizzanti per l’agricoltura, in cui l’idrogeno agisce come reagente chimico e non come combustibile. Sono questi alcuni dei comparti in cui è più urgente sostituire l’idrogeno grigio, prodotto con il metano, con l’idrogeno verde generato da fonti rinnovabili, secondo Matthes.

Proprio negli Emirati, la Dubai Electricity and Water Authority (DEWA), Siemens e Expo Dubai hanno lanciato un progetto pilota per costruire il primo impianto di elettrolisi dell’idrogeno alimentato da fotovoltaico dell’area Mena, con una produzione prevista di circa 300 chili di idrogeno verde al giorno.

“Le quantità potenzialmente abbattibili di CO2 sarebbero enormi, e ci si potrebbe muovere in tempi rapidi, cosa di cui il nostro pianeta ha bisogno per una transizione energetica accelerata”, ha concluso l’amministratore delegato di Dii Desert Energy.

Desertec si sarebbe trasformato, insomma, da un progetto eurocentrico che rischiava di perpetuare direttrici di sviluppo del passato, focalizzato su una o due tecnologie, in un progetto rivolto all’intero sistema energetico, osservato da un punto di vista soprattutto regionale magrebino e mediorientale, con l’intento di fare della regione Mena uno snodo nevralgico dello scacchiere energetico mondiale.

Sui reali costi economici e sociali del progetto e sulle reali tempistiche di attuazione valuteremo nei prossimi anni.

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