Il movimento mondiale Fridays for Future, cresciuto intorno alle comparse mediatiche di Greta Thunberg insieme a Extinction Rebellion, ha posto all’ordine del giorno i cambiamenti climatici, ormai prossimi a una deriva irreversibile e catastrofica, a un pubblico in gran parte tenuto all’oscuro della gravità e dell’urgenza del problema da media, politici e accademia. “Non c’è più tempo”.
Mancano pochi anni al punto di non ritorno: dodici per gli scienziati dell’Ipcc, cinque per James Anderson, che analizza l’evoluzione dei ghiacci sulla Terra. Dovremmo considerarci in guerra: non “contro il clima”, ma contro noi stessi, contro le cose che facciamo e subiamo tutti i giorni.
Per andare in guerra occorre convertire in tempi rapidi sia la produzione sia il nostro stile di vita, dotandoci da subito delle armi necessarie a combatterla e vincerla. Lo avevano fatto in tempi stretti le potenze impegnate nella Seconda guerra mondiale. Si può e deve fare anche adesso.
Tra tante cose giuste Greta ne dice una sbagliata, più volte ripresa dai suoi giovani seguaci: «I politici sanno che cosa bisogna fare, ma non lo fanno». Non è vero; i politici non sanno che cosa fare, non ci hanno pensato (pensano al Pil, alla crescita, alle Grandi opere e ai Grandi eventi, al loro elettorato, alle tangenti); i problemi da affrontare sono troppo grandi.
I climatologi sono ormai (quasi) tutti d’accordo sull’origine antropica e sull’imminenza del disastro e le tecnologie per decarbonizzare il Pianeta sono ormai disponibili; ma la transizione comporta sconvolgimenti radicali negli assetti sociali che governi, imprese e cittadini non sanno come affrontare.
Per questo occorre cominciare a individuare i passi da compiere; la loro definizione non può essere affidata solo ai tecnici, come quelli che l’economista Jeffrey Sachs ha riunito a Milano il 2 e 3 aprile per studiare come decarbonizzare il mondo. Manca la politica, il rapporto dialettico tra alto (i governi) e basso (le comunità locali).
E i passi da compiere sono almeno cinque:
• dichiarare, come hanno fatto alcune città e università, lo stato di emergenza climatica. Bloccare le attività che producono gas climalteranti dando la priorità a quelle che concorrono alla decarbonizzazione;
• garantire un reddito certo a tutti i lavoratori che perderanno il lavoro – o non lo troveranno – nelle imprese da chiudere, in attesa di una loro ricollocazione in quelle della transizione;
• spostare investimenti e incentivi dalle attività legate ai fossili a quelle della transizione. Vuol dire bloccare produzione e importazione di auto individuali e barche da diporto trasferendo gli impianti a quella di mezzi di trasporto pubblico o condiviso (l’elettrico, di per sé, non garantisce alcun beneficio climatico) e di impianti di generazione alimentati da fonti rinnovabili; bloccare le centrali termoelettriche e i consumi energetici superflui; trasformare involucri e alimentazione energetica di tutti gli edifici; convertire agricoltura e alimentazione alle produzioni biologiche e di prossimità; ridurre trasporto aereo e crociere, importexport di merci superflue, traffico marittimo intercontinentale e molto altro;
• fissare, con un monitoraggio affidato a istituzioni internazionali, sanzioni per Stati e corporations che non si adeguano a queste esigenze. Altro che accordi di Parigi…
• coinvolgere le comunità nella definizione, progettazione e realizzazione di questi obiettivi a livello locale.
Sembrano cose impossibili. Tra pochi anni sembreranno ancora insufficienti.
L’articolo è stato pubblicato sul n.2/2019 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “L’errore di Greta”.