Farebbe ridere se non fosse un mezzo dramma ecologico. Un ossimoro che si intitola “Approvazione del Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI)” ed è il provvedimento che definisce le nuove aree in cui sarà permesso di proseguire le attività estrattive degli idrocarburi.
Dopo tanti mesi di attesa, approvato il 28 dicembre dal ministero della Transizione ecologica il decreto n. 548 arriva solo l’11 febbraio e prevede le aree idonee dove trivellare in Italia per estrarre petrolio e gas (allegato in basso). Dalla mappa in alto (in verde le aree idonee), si può notare che quasi mezzo paese è idoneo… alla faccia della transizione ecologica.
Sarà possibile estrarre idrocarburi e/o fare prospezioni in quasi tutte le regioni e, in particolare, in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Toscana, Veneto e, soprattutto, la Sicilia.
Come si può vedere dalla mappa, che non è molto cambiata negli anni, anche nel nord dell’Adriatico si potranno sviluppare attività di ricerca ed estrazioni di fonti fossili con il rischio di provocare un ulteriore abbassamento del suolo (fenomeno detto “subsidenza”) che potrebbe toccare zone particolarmente delicate con la laguna di Venezia.
In queste settimane dove è emerso con forza il problema di caro energia è stato fatto passare dal Governo, Cingolani in testa, e da molti politici, che per risolvere l’aumento della bolletta basterebbe estrarre più gas dai nostri territori.
Come abbiamo scritto, il gas nazionale costerebbe come quello importato, perché viene immesso nella stessa rete e scambiato in mercati organizzati come prodotto indistinto, a prescindere che sia stato importato o prodotto localmente, a un prezzo che è influenzato solo dal rapporto tra offerta complessiva e domanda a livello europeo.
Peraltro, le intere riserve di gas naturale in Italia ammontano in teoria a meno di un anno di consumi (oggi pari a 77 mld mc/anno), pertanto la produzione nazionale non potrebbe aumentare in modo rilevante rispetto ai 3-4 miliardi di metri cubi/anno attuali. Per non parlare degli anni necessari allo sviluppo di questi punti di estrazione, al netto dell’opposizione delle comunità locali.
Con questo provvedimento diventa ridicola anche la nostra adesione alla Beyond Oil and Gas Alliance (Boga), lanciata alla Cop 26, sebbene la partecipazione dell’Italia all’allenza sia al livello più basso tra quelli possibili, cioè come “amica” della nuova alleanza che punta a eliminare gradualmente la produzione di petrolio e gas. Per non parlare della stridente contradddizione con il principio della tutela ambientale appena inserito nella nostra Costituzione, tra l’ovazione di tanti.
Insomma, una decisione che verrà apprezzata soprattutto dalla nostra Eni, per il 30% di proprietà statale, che resterà nella top 20 dei produttori mondiale di petrolio e gas.
Il MiTE aveva inviato lo scorso 30 settembre alla Conferenza Unificata il Piano. E questo è il risultato. Le associazioni ambientaliste avevano denunciato il fatto che già da ottobre sarebbe ripresi i procedimenti autorizzativi vecchi e nuovi (compresi quelli di Valutazione di Impatto Ambientale) per la prospezione e ricerca degli idrocarburi, che erano stati sospesi sino a fine settembre.
Ora abbiamo sotto minaccia oltre 90mila kmq in mare e oltre 26mila kmq su terraferma. Ma secondo il governo Draghi il problema è il superbonus, mentre le rinnovabili possono anche attendere.