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Trivelle, il ritardo del Pitesai mette in allarme gli ambientalisti

Ieri la nota del Ministero della Transizione ecologica che annuncia l'invio del Piano alla Conferenza Unificata. Intanto Le associazioni denunciano il rischio che possano ripartire le istanze momentaneamente sospese, il MiTe smentisce.

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In assenza dell’adozione del Pitesai  – il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee, il piano  che individua le aree dove non sarà più possibile svolgere attività di ricerca e produzione di idrocarburi,  che doveva arrivare entro la fine di settembre –   si sono rimessi in moto i procedimenti autorizzativi vecchi e nuovi (compresi quelli di Valutazione di Impatto Ambientale) per la prospezione e ricerca degli idrocarburi, che erano stati sospesi sino a fine settembre e che ricominceranno a minacciare circa 91mila chilometri quadrati di mare e 26mila kmq sulla terraferma.

La denuncia arriva Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia, mentre dal MiTe arriva la notizia che il Piano solo ieri, 30 settembre, è stato inviato alla Conferenza Unificata.

Le associazioni ambientaliste avevano lanciato l’allarme con una lettera al ministro Cingolani sin dal 9 settembre scorso, paventando che questo sarebbe stato l’esito inevitabile, visto che non c’era il tempo per il perfezionamento della procedura VAS sulla proposta di PiTESAI e per l’intesa con la Conferenza unificata per le attività legate alle trivellazioni a terra, prima di adottare il Piano.

Ciò comporta  per le sole attività a mare, come ricordano le tre associazioni sulla base dei dati riportati nella stessa proposta di PiTESAI, che riparta l’iter per:

  • 5 istanze di permesso di prospezione in mare, di cui è in corso la valutazione ambientale, per un totale di 68.335 kmq;
  • 24 istanze di permesso di ricerca in mare (alcune delle quali con la procedura di  VIA in corso) per un totale di 13.777 kmq e che coinvolgono il Canale di Sicilia (4 istanze), le coste dell’Adriatico tra le Marche e l’Abruzzo (7 istanze), le coste di fronte la Puglia (10 istanze) e il Golfo di Taranto (3 istanze
  • 1 istanza di concessione di coltivazione nel Golfo di Venezia
  • 20 permessi di ricerca – per un totale di 8.872 kmq – che erano stati congelati in attesa dell’approvazione del piano e che coinvolgono il Golfo di Venezia (7 permessi), il Canale di Sicilia (4), le coste di fronte alla Puglia (4), Calabria (4) e l’Adriatico  di fronte la costa anconetana.

Per la terraferma, ricordano le associazioni, ripartono, invece:

  • 56 istanze (di cui 50 per permessi di ricerca) per 11.483 kmq che riprenderanno l’iter amministrativo e che riguardano Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Molise e Puglia.
  • 43 permessi di ricerca per 14.473 kmq e che vedono coinvolte oltre alle regioni precedenti anche Piemonte, Sicilia, Veneto e Marche.

“Abbiamo la netta impressione che qualcuno abbia voluto bluffare per mettere tutti di fronte al fatto compiuto. Come abbiamo denunciato nelle nostre Osservazioni mandate il 13 settembre al termine dei 60 giorni concessi per la consultazione, la proposta di PiTESAI, presentata con grande ritardo in VAS il 15 luglio scorso, è una scatola vuota, a malapena un ‘documento di indirizzo’ senza alcun impegno serio, coerente con  il target di decarbonizzazione al 2050 concordato con l’Europa e quindi con la necessità di indicare un  tassativo termine di tempo per la cessazione di qualsiasi concessione e per la dismissione progressiva delle piattaforme in Italia”, commentano le associazioni.

“Non era quindi materialmente possibile che si arrivasse ad integrare il Piano e a farlo adottare, nei 16 giorni successivi alla chiusura il 14/9 delle consultazioni per la VAS.  Troviamo che sia singolare che al MiTE nessuno si sia allarmato visto che, dopo la riorganizzazione dei Ministeri del marzo scorso, in questo dicastero convivono sia la direzione che ha redatto la proposta di Piano che quella che deve valutarlo!”, aggiungono poi Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia.

Mentre ripartono le istanze, langue il piano di decommissioning delle 34 piattaforme (l’80% delle quali nella fascia di interdizione di 12 miglia dalle coste e il 50 per cento senza Valutazione di Impatto Ambientale)  che erano state individuate nel “Programma italiano di attività per le dismissioni piattaforme offshore”,  redatto a fine 2018 dopo due anni di confronto tecnico tra lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico, l’allora Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Assomineraria (l’associazione di categoria dei petrolieri) e le associazioni ambientaliste (Greenpeace, Legambiente e WWF).

Sono ad oggi solo 5 le piattaforme poste in dismissione, 3 delle quali erano interessate da progetti di riutilizzo.

Come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo, ieri  il MiTe ha inviato alla Conferenza Unificata il Piano, che – si legge in una nota del ministero – “potrà ora essere affinato con il confronto durante i lavori della Conferenza Unificata, in modo da giungere il prima possibile all’intesa prevista per l’adozione. Nel frattempo il MiTE non autorizzerà alcuna nuova attività estrattiva e di ricerca”.

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