Emissioni, per il clima carne e latticini quasi peggio del petrolio

Le maggiori multinazionali del cibo, evidenzia un recente studio, emettono più anidride carbonica su scala globale di alcuni colossi energetici come ExxonMobil, Shelle o BP. Vediamo perché e quali rischi ci sono per il nostro Pianeta.

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Ci sono aziende che inquinano più di ExxonMobil, Shell o BP, i colossi petroliferi mondiali che negli studi sull’andamento delle emissioni di anidride carbonica sono considerati tra i principali responsabili dei cambiamenti climatici planetari.

Parliamo delle multinazionali dell’alimentare.

Un recente rapporto firmato dall’Institute for Agricolture and Trade Policy (IAPT, l’istituto Usa che promuove le pratiche agricole e commerciali “sostenibili”) e dall’organizzazione non governativa Grain, Emissions impossible – How big meat and dairy are heating up the planet (documento completo allegato in basso), evidenzia che le cinque maggiori compagnie globali che producono carne e latticini rilasciano nell’atmosfera, ogni anno, più CO2 rispetto a quella diffusa dalle grandi aziende energetiche.

Le emissioni annuali cumulative delle prime venti società alimentari, si legge nel documento, superano quelle di intere nazioni come la Germania, il Canada o l’Australia.

Tra l’altro, sono pochissime le aziende del settore – lo studio cita solamente NH Foods, Nestlé, FrieslandCampina e Danone – che pubblicano in modo chiaro ed esaustivo le informazioni sulla quantità di gas-serra imputabili alle loro attività.

Ci troviamo, quindi, in una “zona grigia” molto simile a quella che circonda diverse imprese che investono in combustibili fossili, senza curarsi di ridurre il loro impatto sull’ambiente, tantomeno di divulgare con trasparenza i dati sulle emissioni inquinanti (vedi anche QualEnergia.it).

Eppure, chiarisce lo studio, se le multinazionali del cibo continueranno a operare come hanno sempre fatto, in uno scenario business-as-usual, potranno quasi vanificare tutti gli sforzi compiuti per tagliare la CO2 nell’energia e nei trasporti.

Il grafico sotto, tratto dal rapporto IAPT-Grain, infatti, mostra che nel 2050 le grandi imprese alimentari potrebbero erodere quasi interamente il carbon budget annuale compatibile con un aumento delle temperature di 1,5 gradi rispetto all’età preindustriale, emettendo oltre 10 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, su un totale di 13 miliardi raccomandati per evitare un eccessivo surriscaldamento terrestre (vedi anche QualEnergia.it Ridurre le emissioni di CO2 non basterà: dovremo anche rimuoverle).

La maggior parte delle società che confezionano carne e latticini si trova negli Stati Uniti, in Europa, Canada, Brasile, Argentina, Australia e Nuova Zelanda; in queste aree geografiche si concentra il 43% delle emissioni globali dovute alla produzione di alimenti, anche se in esse abita solamente il 15% della popolazione di tutto il mondo.

Torniamo, così, al tema dell’economia circolare, che sta guadagnando sempre più spazio nei dibattiti sul futuro dell’economia “verde”: come ridurre gli sprechi alimentari, praticare un’agricoltura a basso impatto ambientale, orientare la dieta di intere popolazioni verso un minore consumo di carne (gli allevamenti intensivi sono una fonte notevole di gas-serra, nel caso specifico di metano), diminuire le esportazioni massicce di cibo, avvicinando produttori e consumatori su scala locale.

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