Quanto e come le grandi aziende sono capaci di orientare le scelte politiche in tema di energia e ambiente? È possibile misurare questa forma di potere?
Possiamo provarci, a patto di non limitare la nostra analisi alle rispettive emissioni inquinanti – la carbon footprint, impronta del carbonio, comunemente impiegata per distinguere i virtuosi dai meno impegnati – considerando invece altri elementi.
Parliamo delle più di 30.000 “evidenze” (pieces of evidence: commenti, dichiarazioni, pubblicità, interviste eccetera), riferite a 250 compagnie globali di svariati settori, archiviate da InfluenceMap.
Il think-tank britannico ha stilato una graduatoria delle imprese che influenzano maggiormente, nel bene come nel male, le decisioni dei governi su quali fonti energetiche favorire o disincentivare.
Tale influenza, si legge nel rapporto Corporate Carbon Policy Footprint (allegato in basso), è qualcosa di più della semplice, per così dire, attività lobbistica nelle stanze dei bottoni.
Il punto è che le emissioni “fisiche” di CO2 sono solo una parte del problema climatico. Ci sono modi molto più subdoli per lasciare una pessima impronta ambientale dietro il nostro passaggio.
Ad esempio, il think-tank cita una recente ricerca di Harvard, che evidenzia quanto ExxonMobil nei documenti pubblici abbia instillato dubbi sulla reale portata dei cambiamenti climatici e sulle responsabilità umane del surriscaldamento terrestre.
InfluenceMap, utilizzando la guida stilata dall’ONU nel 2013 per valutare la “sostenibilità” delle aziende (Guide to Responsible Corporate Engagement with Climate Policy, allegata in basso), ha provato a tracciare il comportamento delle multinazionali, classificandole in base al sostegno che forniscono agli obiettivi salva-clima definiti dagli accordi di Parigi due anni fa.
I risultati, riassunti nello schema qui sotto, mostrano che 35 delle 50 industrie più influenti del Pianeta sono attivamente impegnate a contrastare le politiche climatiche.
Tra queste figurano colossi petroliferi come ExxonMobil e Chevron, utility con un’ampia fetta di generazione elettrica a carbone, ad esempio Duke Energy e American Electric Power, compagnie energy intensive come ArcelorMittal, Bayer, Solvay e anche case automobilistiche, in particolare Fiat-Chrysler, BMW, Daimler, Ford, che si spendono per far diluire o ritardare nuovi standard sull’efficienza dei motori.
Dall’altra parte, osserva InfluenceMap, ci sono 15 grandi società che appoggiano pubblicamente la transizione energetica verso le fonti green e la mobilità elettrica: Apple, Ikea, Unilever e gli altri nomi che hanno siglato l’iniziativa RE100 con l’impegno di consumare il 100% di energia rinnovabile, poi varie utility tra cui Enel, EDF, Iberdrola.
La maggior parte delle multinazionali, però, si può classificare “neutrale”, perché non supporta né ostacola con convinzione le misure ambientali proposte da governi e istituzioni.
Consapevoli che è molto difficile mappare questa “impronta politica del carbonio”, nello studio inglese troviamo una prospettiva diversa, lo sforzo di registrare e classificare il potere di persuasione delle maggiori compagnie nel dibattito pubblico che verte sulla scienza del clima.
Un lavoro simile è stato svolto da un’organizzazione indipendente americana (UCS, Union of Concerned Scientists) nel suo Climate Accountability Scorecard, riferito a otto società energetiche, che nel complesso sono responsabili del 15% circa delle emissioni inquinanti originate dalle industrie dal 1850 a oggi.
Sono i grandi del petrolio e del carbone, tra cui l’onnipresente – quando si parla di fonti “sporche” – ExxonMobil e poi Chevron, BP, ConocoPhillips, Shell, Peabody, Consol Energy, Arch Coal.
Secondo gli analisti americani, tutte queste compagnie hanno distorto in vario modo la pubblica percezione della realtà climatica con tecniche di negazionismo e disinformazione, anche attraverso cospicui finanziamenti a organizzazioni e testate giornalistiche (QualEnergia.it, Disinformare, negare o tacere: i big delle fossili che oscurano la scienza del clima).