La guerra, qualsiasi guerra, e questa in particolare, rappresentano un passo indietro drammatico per la conversione ecologica: creano divisioni, inimicizie e aperta ostilità tra coloro che dovrebbero avere interesse a operare insieme per sventare l’acuirsi della crisi climatica e ambientale.
Hanno effetti immediati nella produzione di immense quantità aggiuntive di gas di serra e nella devastazione dei territori teatro dei combattimenti, forniscono giustificazione o pretesti alla riattivazione di tutte le fonti energetiche che dovrebbero essere eliminate: gas, petrolio, carbone, nucleare e anche all’intensificazione delle produzioni agricole industrializzate (per far fronte alle mancate forniture dei due paesi direttamente in guerra) e quindi a un ulteriore ritardo nel contenimento di processi che insteriliscono e degradano il suolo, riducendo anche la sua capacità di trattenere e assorbire carbonio.
Forniscono giustificazioni o pretesti anche a un aumento della produzione di armi ma anche di prodotti che consumano risorse materiali e umane, producono inquinamento e gas di serra, hanno bisogno di essere smaltiti, promuovendo guerre o venduti, per farle fare a chi li compra sottraendo risorse materiali e umane a usi alternativi, in molti casi indispensabili e vitali.
Si sta alimentando una diffusa bellicosità, una concezione secondo cui le guerre sono inevitabili, che tratta come utopisti, idealisti, illusi, gli sforzi per promuovere la pace.
Questo passo indietro rinvia la “transizione ecologica” a ben oltre la soglia temporale che l’Ipcc ha da tempo indicato come quella che renderà i processi di degrado climatico e ambientale irreversibili.
Le condizioni del Pianeta Terra in cui dovranno vivere le prossime generazioni di tutti gli esseri viventi, saranno a dir poco molto ostiche; nella speranza che non si facciano del tutto insostenibili.
Nella prospettiva di promuovere e rendere “socialmente desiderabile”, come chiedeva Alexander Langer, la conversione ecologica, sono state sprecate, tra le tante, due occasioni che dovevano permettere di “toccare con mano” situazioni destinate a intensificarsi nel tempo.
In primo luogo, le migrazioni, di cui il contingente di profughi arrivato in Europa è solo una prima manifestazione di processi destinati a crescere e caratterizzare la “normalità” del futuro, tanto che la guerra in Ucraina ne ha già riversati in Europa altri 6 milioni e tutti in un colpo!
In secondo luogo, i rischi, i disagi e le restrizioni imposte dalla pandemia, tutte cose destinate non solo a ripresentarsi in nuove forme e con nuovi contagi, ma anche a lasciar mano libera alle scelte governative senza il minimo coinvolgimento della cittadinanza.
Ora, di fronte alla guerra, il problema si ripresenta: le difficoltà nelle forniture di gas e carburante, ma in prospettiva anche di prodotti alimentari e beni di consumo che siamo abituati a considerare sempre a disposizione, dovrebbero permetterci d’individuare nella riconversione radicale di molti impianti (a partire dalle fabbriche di armi e dalle strutture energetiche legate ai fossili).
Ma anche nella modifica degli stili di vita in direzione di una maggiore sobrietà nell’alimentazione – che vuol dire eliminazione degli allevamenti intesivi e agricoltura di prossimità – nella mobilità e nel consumo di spazio, materiali, gadget, moda, ecc. la possibilità di sostituire consumi individuali per molti irraggiungibili con consumi condivisi sostenuti da una collettività.
L’articolo è stato pubblicato sul n.2/2022 delal rivista bimestrale QualEnergia