Una corposa analisi di Greenpeace Europa centro-orientale (CEE) dimostra come le grandi aziende del settore dei combustibili fossili continuino a ingannare l’opinione pubblica sulla loro effettiva volontà di ridurre l’impatto sul clima.
Con il rapporto “The Dirty Dozen: The Climate Greenwashing of 12 European Oil Companies” (allegato in basso) l’associazione ambientalista ha analizzato profitti, ricavi e investimenti di 12 aziende europee produttrici di combustibili fossili: Shell, TotalEnergies, BP, Equinor, Eni, Repsol, OMV, PKN Orlen, MOL Group, Wintershall Dea, Petrol Gruppo, Ina Croazia.
Il rapporto raccoglie le schede di analisi per ciascuna azienda, facendo emergere alcuni risultati interessanti.
Le cinque gravi carenze delle aziende fossili
Secondo gli autori, l’industria del petrolio e del gas è carente in quasi tutte le azioni che dovrebbe intraprendere per diventare protagonista (o almeno spettatore neutrale) della transizione energetica globale e della protezione del clima. Questi gli aspetti critici principali:
Scarsi investimenti. Nonostante i profitti delle società fossili nel 2022 siano aumentati in media del 75%, il rapporto evidenzia che i loro investimenti sono aumentati solo del 37%. La maggior parte dei profitti non è stata reinvestita, ma incanalata verso il riacquisto di azioni proprie. Inoltre, appena un 7,3% degli investimenti è stato destinato alla produzione di energia sostenibile, mentre il restante 92,7% è servito per alimentare e sostenere il comparto del petrolio e del gas fossile.
Mancanza di produzione di energia rinnovabile. In media, nel 2022, solo lo 0,3% della produzione energetica delle 12 aziende elencate è stata generata da fonti rinnovabili, mentre il restante 99,7% è da petrolio e gas. In nessun caso la quota di rinnovabile prodotta ha superato l’1,35% della produzione totale di energia.
Carenza di strategie per la sostenibilità. Sebbene la maggior parte delle 12 aziende si sia impegnata pubblicamente a raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050, uno sguardo più attento mostra che nessuna di loro ha sviluppato una strategia coerente per raggiungere questo obiettivo.
Invece di puntare massicciamente verso la produzione di energia rinnovabile o a investire nello sviluppo di tecnologie a basse emissioni di carbonio, le compagnie petrolifere e del gas stanno concentrando la loro pianificazione strategica sulla cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) e sulla compensazione del carbonio, approcci controversi la cui efficacia nella riduzione delle emissioni è tutta da dimostrare.
Ben pochi sforzi reali. La maggioranza delle compagnie del comparto fossile prevede di stabilizzareo, addirittura aumentare la propria produzione di petrolio e gas almeno fino al 2030. Nel frattempo, rinviano la maggior parte dei loro sforzi di decarbonizzazione a dopo il 2030 (vedi tabella in basso).
Solo quattro aziende (Shell, Equinor, Eni, OMV) hanno comunicato i loro ulteriori obiettivi intermedi nel periodo dal 2030 al 2050. Per il resto, denuncia Greenpeace, domina l’approccio wait-and-see, ovvero annunciare obiettivi facilmente raggiungibili fino al 2030, impegnarsi nel Net Zero al 2050, ma il tutto in modo poco trasparente.
Poca onestà. Le loro tecniche di greenwashing stanno comunque migliorando, proprio per riuscire a colmare quell’ampio divario tra le audaci affermazioni di raggiungere il target “zero emissioni nette” e quella forte resistenza a cambiare il proprio modello di business.
I rapporti annuali delle aziende esaminate da Greenpeace CEE danno quasi l’impressione che la crisi climatica sia un problema scoperto di recente e al quale stanno iniziando solo ora a reagire.
Come affrontare lo strapotere del settore fossile
Per modificare l’approccio dannoso per il clima delle aziende produttrici di combustibili fossili sono necessarie diverse azioni di politica energetica.
In primo luogo, i governi devono concentrarsi sulla rapida riduzione di tutti i tipi di domanda di combustibili fossili in Europa, stabilendo fasi e scadenze per la loro eliminazione graduale.
Il maggior potenziale di risparmio di petrolio si trova nel settore dei trasporti: misure come la riduzione del limite di velocità sulle autostrade, la diminuzione del traffico e la sostituzione dei viaggi in aereo con spostamenti in treno e con tecnologie per riunioni virtuali, consentirebbero i maggiori risparmi in termini di consumo totale di energia primaria.
Il potenziale di risparmio di gas si riscontra invece nel settore industriale; solo in questo ambito nell’Ue sarebbe possibile ridurre il consumo del 20%. Subito dopo c’è il riscaldamento residenziale, dove sono disponibili tecnologie in grado di sostituire il metano.
C’è poi la annosa questione dell’incapacità dell’industria fossile di autoregolamentarsi. I governi dovrebbero imporre a queste aziende che hanno sede nei propri territori di investire in infrastrutture per l’energia pulita, aumentare la produzione di rinnovabili, interrompere qualsiasi nuovo progetto di esplorazione e ridurre la produzione di combustibili fossili in linea con l’accordo di Parigi.
Fino a quando non sarà adottata una regolamentazione adeguata, i profitti delle aziende produttrici di combustibili fossili, secondo Greenpeace, dovranno essere tassati pesantemente per compensare i paesi colpiti da eventi meteorologici estremi.
Inoltre, tutte le forme di sussidio dedicate all’estrazione, produzione, raffinazione e trasporto di combustibili non rinnovabili dovrebbero essere gradualmente eliminati.
Un’ultima soluzione proposta dal rapporto riguarda il sostegno da parte delle istituzioni Ue per aiutare i governi a elaborare piani per evitare gli “stranded asset” delle aziende fossili, cioè risorse e infrastrutture (condutture e centrali elettriche) che, non più utilizzate, potrebbero diventare una passività ben prima della fine della loro vita economica.
Il caso di Eni
Greenpeace Italia, in un comunicato, ha messo in evidenza che fra le aziende esaminate c’è anche Eni. La partecipata statale nel 2022 ha registrato entrate record per 132,5 miliardi di euro, il 109% in più rispetto al 2019-2021, e i profitti più alti di sempre, con un utile operativo adjusted pari a 20,4 miliardi di euro, più che raddoppiato rispetto all’anno precedente.
Però “solo le briciole sono state destinate allo sviluppo delle rinnovabili. Degli 8,1 miliardi di euro di investimenti in conto capitale, ben il 90% è stato destinato al comparto fossile e appena 0,6 miliardi di euro, pari a poco meno dell’8%, sono stati investiti nella generazione e vendita di energia, e di questi solo una parte in energie rinnovabili”.
Simona Abbate, campaigner Energia e Clima di Greenpeace Italia ha dichiarato: “Oltre a questo enorme sbilanciamento degli investimenti a favore delle fonti fossili, si aggiunga il fatto che i piani industriali di Eni prevedono significative emissioni di gas serra ben oltre il 2050”.
“Ed è per questo – ha aggiunto – che abbiamo deciso di fare causa all’azienda, affinché siano riconosciute le sue responsabilità nella crisi climatica e per costringere i vertici dell’azienda ad adottare una vera strategia di decarbonizzazione in linea con l’Accordo di Parigi” (Greenpeace e ReCommon fanno causa a Eni: “danneggia il clima violando i diritti umani).
- Il rapporto (pdf)