L’Eni e la fusione nucleare: parliamo del kWh e non del Q

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Le dichiarazioni di Descalzi sull'impegno di Eni nella fusione: ambizioni futuristiche che si scontrano con decenni di fallimenti, ritardi e incognite economiche. Forse perché la fissione richiederebbe subito risorse molto più ingenti?

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A proposito di nucleare in Italia, Claudio Descalzi di Eni, intervistato dal giornalista Maurizio Belpietro al XXII Forum Coldiretti dell’agricoltura e dell’alimentazione (28-29 novembre 2024), dice (11’50’’ – video):

Descalzi: … secondo me il nucleare è l’unica soluzione. Come Eni, non siamo impegnati nella fissione ma nella fusione, ormai da più di 10 anni; siamo molto avanti. Partecipiamo come shareholder di maggioranza, con il 19%, a una società [CFS] spin off del MIT. È più avanzata, è una fusione di tipo di contenimento [magnetico]. Ci sono diverse tipologie di fusione siamo già molto avanti, è chiaro poi che la commercializzazione porterà via anni, adesso finiamo la costruzione dell’impianto [sperimentale SPARC], perché siamo uno shareholder, non lo stiamo facendo noi, anche se partecipiamo alla parte di ingegneria e di supply chain. Dovremmo arrivare a fare un primo test [SPARC] a fine 2026; poi ottenere Q maggiore di 1, quindi produrre più elettricità di quella che si utilizza per innescare la fusione. È un processo: nel 2027 si arriverà a definire se è possibile [realizzare la fusione].

Belpietro: Lei ha detto che i tempi devono essere rapidissimi. Benissimo, se domani decidessimo quanto impiegheremmo?

Descalzi: Ci vogliono almeno 4-5 anni di realizzazione per farne uno [reattore]; sui costi per adesso è un po’ arduo dirlo, però per 500 MW potrebbero volerci circa 2 miliardi per il primo, e se va tutto bene il 2027-2028. Un progetto completo è già stato definito [ARC]. Stiamo già investendo nell’impianto commerciale che potrà dar luogo a una serie nel 2031-2032…

Descalzi dice Q=1 (SPARC) nel 2026, Q>10 nel prototipo nel 2028, i reattori commerciali a partire dal 2032, due miliardi per 500 MW, e 4-5 anni per costruirli (Q è considerato il fattore di guadagno energetico da fusione).

Mettiamo queste dichiarazioni in una prospettiva storica cominciando con una precisazione: Q=1 non vuol dire “più elettricità prodotta che consumata”, ma più energia neutronica prodotta di quanta energia immessa nel core del reattore.

Questa energia in ingresso è inevitabilmente in una forma molto più cara di quella elettrica e non sono compresi i consumi dei servizi ausiliari, l’efficienza dei generatori, delle turbine a vapore, ecc. In progetti analoghi si immagina di raggiungere il pareggio con la rete elettrica a Q>10.

Nel “reattore” sperimentale SPARC del CFS menzionato da Descalzi, Q=1 dovrebbe essere raggiunto per qualche secondo.

Successivamente col prototipo di reattore ARC, in linea di principio nel 2028, Q potrebbe essere superiore di un ordine di grandezza, ma ancora non si produrrebbe energia.

L’idea di ARC è di ottenere Q=10-20, cioè reazioni in quantità sufficiente per un reattore che producesse energia elettrica netta.

La conversione dell’energia dei neutroni in elettricità per i decenni di vita del reattore, e l’indispensabile auto-produzione di combustibile, anch’essa a carico dei neutroni della reazione, sono problemi nuovi, mai sperimentati e di difficile soluzione.

Nella fissione, l’ambiente delle reazioni è solido, dal core emerge solo calore, il livello delle radiazioni ionizzanti al suo esterno immediato è molto contenuto.

Nell’ambiente delle reazioni di fusione, molto più rarefatto dell’aria che respiriamo, la conversione dell’energia dei neutroni deve avvenire alla prima parete solida che incontrano lasciando il core. Niente del genere è stato mai sperimentato per mancanza di una sorgente di intensità comparabile a quella di un reattore a fusione e non si può predire con certezza se sia possibile realizzarlo anche in via teorica.

Nei 70 anni di ricerca precedenti l’attuale “fusione degli imprenditori” si è sempre pensato di procedere per gradi per contenere la spesa e guadagnare tempo. Gli esperimenti sono sempre stati grandi quanto serviva a dimostrare obiettivi intermedi rispetto alla centrale elettrica.

Vediamo ora i risultati finali di più di mezzo secolo del programma di ricerca “accademica” dei grandi laboratori nazionali, gli ENEA e i CNR di mezzo mondo, per intenderci.

Alla fine degli anni ’90, al PPPL di Princeton, con un investimento pluri-decennale, Q=1 fu sostanzialmente raggiunto e mantenuto per circa un secondo (più precisamente Q=0.27). Era il programma di punta, il “o la va, o la spacca” del DOE, il Dipartimento dell’Energia, un’agenzia federale USA.

Alla luce di questi risultati il DOE decise di interrompere quasi completamente i finanziamenti per questa ricerca in tutto il paese; una decisione dolorosa per chi lavorava in questo campo. Molti tra i fondatori di CFS erano impiegati dal DOE quando vennero sospesi i finanziamenti governativi, successivamente ripristinati da ENI e altri soci su progetti modernizzati, ma sostanzialmente analoghi.

Per la maggior parte dei ricercatori americani del settore, la conclusione principale della lunga storia di record di confinamento del calore in un plasma magnetizzato, è che l’energia elettrica prodotta da un reattore a fusione a confinamento magnetico non sarebbe mai stata abbastanza economica da giustificarne la realizzazione.

La realtà del consueto adagio che la fusione è sempre lontana 30 anni dalla sua realizzazione, può anche essere peggio di quel che sembra. A molti pare che più gli arcani della fusione vengono studiati e compresi, più il miraggio si allontana invece di avvicinarsi, e che siano necessarie idee radicalmente nuove.

Il direttore generale di ITER, l’attuale esperimento europeo di punta, Pietro Barabaschi, coraggiosamente dichiara in un’intervista che, se mai vedremo i risultati pratici della fusione, sarà nel prossimo secolo.

Q=1 è stato sostanzialmente raggiunto, negli anni ’20, anche dal progetto JET dell’EURATOM, dopo circa 50 anni di lavoro.

Il programma europeo prosegue con ITER, un esperimento in costruzione per determinare una volta per tutte la complessità, e quindi il costo, del reattore a fusione, costi quel che costi.

In contrasto con questi due atteggiamenti estremi, abbandonare o andare fino in fondo, si è sviluppato il far west delle start-up.

Sempre che di startup si tratti, visto che l’inconcludente TAE (al cui capitale partecipa ENEL) nacque nel 1998, ha bruciato più di un miliardo e ancora non ha nulla di nuovo da mostrare sulla strada di un impianto produttivo. Un’affermazione forte, ma inevitabile ora che, col passaggio al privato, alla valutazione del progresso di un’impresa tecnologica si frappone anche la riservatezza della proprietà intellettuale.

ITER è un’iniziativa di ricerca legittima, alla luce del sole, frutto di un piano fondato su quel che si è pazientemente imparato per quasi un secolo e sta seriamente indagando le proprietà di questa sorgente di energia per il suo sfruttamento pacifico.

Non a caso se si interrogasse ChatGPT, tra un’allucinazione e l’ altra, ITER sarebbe l’esito più frequente poiché rappresenta il consenso medio della comunità scientifica.

A ITER partecipano anche gli USA. Sarebbe brutto negare il proprio appoggio al più grande esperimento scientifico internazionale di ogni tempo, ma il loro intermittente contributo economico a parità di Pil, è circa venti volte inferiore a quello italiano e dimostra quanto poco credano attualmente alla fattibilità civile della fusione.

Per concludere nessuna delle proposte ora sul mercato fa pensare che si potrà mai generare un kWh anche dieci volte meno caro di quello della fissione.

Dieci è naturalmente un’asticella arbitraria, ma prima di dare in pasto ai vari consigli di amministrazione una nuova idea, l’obbiettivo non dev’essere il Q, oppure un analogo traguardo scientifico. Per una grande azienda in vena di diversificare in un campo dove non ha una tradizione, la domanda se investire o meno dev’essere posta in termini economici e puntare a un traguardo concreto.

A meno che l’obiettivo del CDA non sia quello di evitare di impegnarsi con il governo sul nucleare da fissione. La fissione nucleare tradizionale già funziona ma, non essendo un esperimento, richiederebbe investimenti infinitamente più onerosi per la sua realizzazione.

E il governo non eccepisce, anzi non gli pare vero che esista una scappatoia del genere per dilazionare la decisione sul nucleare. Un nuovo referendum li terrorizza e non è ovvio che il panorama energetico possa cambiare radicalmente nei decenni che richiederebbero gli investimenti nucleari.

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