Eni e Snam hanno annunciato questa settimana l’avvio delle attività di iniezione sotterranea della CO₂ nell’ambito della loro joint venture per la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS) a Ravenna.
“Ravenna CCS” è “il primo progetto per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio permanente della CO₂ in Italia, realizzato a scopi esclusivamente ambientali per contribuire alla decarbonizzazione dei settori industriali”, hanno scritto le due società in un comunicato.
“La Fase 1 ha l’obiettivo di catturare, trasportare e stoccare la CO₂ emessa dalla centrale Eni di trattamento del gas fossile di Casalborsetti, nel comune di Ravenna, stimata in circa 25mila tonnellate per anno”, hanno precisato le due aziende.
La Fase 2 del progetto – aggiungono – prevede di stoccare “fino a 4 milioni di tonnellate l’anno di CO2 entro il 2030, in linea con gli obiettivi definiti dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (Pniec)”.
Una volta catturata, la CO₂ viene veicolata attraverso condotte riconvertite, precedentemente usate per il trasporto del gas, fino a una piattaforma offshore a largo di Ravenna, per essere iniettata in un giacimento di gas esaurito sottostante, dove sarà stoccata stabilmente a circa 3mila metri di profondità.
Il progetto dovrebbe abbattere di oltre il 90%, con punte fino al 96%, la CO₂ in uscita dal camino della centrale, con una concentrazione di carbonio inferiore al 3% e a pressione atmosferica.
“Queste performance collocano “Ravenna CCS” come il primo progetto al mondo su scala industriale con tale efficienza di cattura”, hanno indicato Eni e Snam, secondo cui il sistema CCS sarà alimentato da energie rinnovabili.
Un unico aspetto positivo del progetto
Rispetto ai progetti di CCS del passato a livello internazionale, per lo più fallimentari economicamente e puramente demagogici dal punto di vista della lotta al cambiamento climatico, l’iniziativa della joint venture ravennate potrebbe vantare un lato positivo, almeno sulla carta.
Storicamente, infatti, l’anidride carbonica catturata e sequestrata è stata quasi sempre riutilizzata per il cosiddetto “recupero migliorato del petrolio” o “enhanced oil recovery” (Eor), cioè per produrre petrolio e gas con emissioni ancora maggiori del solito.
Nel caso di Ravenna, invece, il progetto dovrebbe servire “a scopi esclusivamente ambientali per contribuire alla decarbonizzazione dei settori industriali” ad alte emissioni, e quindi non per estrarre più idrocarburi ancora più inquinanti.
L’obiettivo della joint venture è infatti prelevare la CO2 non solo dai propri camini, ma anche da quelli delle aziende energivore del ravennate: aziende siderurgiche, vetrerie, cartiere, produttori di ceramica, ecc. a cui converrebbe stoccare sottoterra la propria CO2, piuttosto che pagare permessi di emissione nell’ambito del sistema europeo Ets, destinato presumibilmente a diventare sempre più oneroso.
Come testimonia la nota delle due società, la carbon capture è quindi riproposta ora in veste green come soluzione per il clima, soprattutto per attutire l’impatto climatico dei settori difficili da decarbonizzare.
A promuovere la CCS come strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi della decarbonizzazione sono state anche istituzioni prestigiose come l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea), nei suoi rapporti “Energy Technologies Perspectives” e “Net Zero by 2050”.
Questo autorevole avvallo ha innescato un’accesa diatriba fra ambientalisti e “fossilisti” sulla CCS, in cui anche quest’ultima iniziativa di Eni e Snam è destinata a incappare: è più un’operazione di greenwash per prolungare la vita dei combustibili fossili o una panacea per scongiurare le conseguenze peggiori dei mutamenti climatici?
Tutti i “contro” dell’iniziativa
Per cercare di rispondere a questa domanda, all’unico più evidente pro dell’iniziativa bisogna affiancare molti dei tradizionali “contro” con cui da vari anni ormai i critici prendono di mira la CCS e i suoi fautori.
È difficile descrivere qui tutte le controindicazioni e le possibili mistificazioni della CCS. Ne faremo solo un breve riassunto, rimandando i lettori a vari altri articoli nella sezione di QualEnergia.it sulla CCS per approfondire la questione.
- Costi della CCS
La joint venture di Snam-Eni non ha reso noti i dettagli economici circa l’operatività del progetto. Sappiamo però che il costo di un ciclo completo di separazione e stoccaggio della CO2 negli impianti attuali varia da 124 a 317 euro per tonnellata di CO2, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea).
In questo calcolo dei costi non sono considerati quelli relativi ai rischi legati allo stoccaggio e i costi che coinvolgono le future generazioni proprio nella gestione del rischio, nella manutenzione e nel monitoraggio dei siti.
A pesare sui costi sono voci come l’ubicazione degli impianti, in gran parte lontani almeno decine di chilometri dai potenziali siti di stoccaggio; la separazione della CO₂ dagli altri effluenti alle ciminiere, che speso richiede sostanze chimiche e che rilascia grandi quantità di ammoniaca; l’alto consumo di acqua, oltre che di elettricità.
In un mercato competitivo, l’alto costo della CCS dovrà quindi essere compensato dalla vendita della CO2 catturata, da incentivi governativi o facendo pagare un prezzo ai consumatori. Tuttavia, questi percorsi non sono garantiti e ognuno di essi può rappresentare un grosso ostacolo per la sostenibilità dei progetti.
A fronte di tali costi certi nella migliore delle ipotesi, va considerato anche il tasso di insuccesso di questi progetti.
Dal 2009, infatti, i governi mondiali hanno stanziato 8,5 miliardi di dollari per progetti CCS, ma solo il 30% di questi finanziamenti è stato speso perché i progetti non sono riusciti a decollare e quelli che lo hanno fatto sono risultati spesso in ritardo e con risultati insufficienti, così che numerosi progetti sono stati abbandonati per insostenibilità economica o problemi tecnici, secondo un rapporto dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa).
- Tassi di cattura della CO2
Pochissimi progetti in passato sono riusciti a rispettare i tassi di cattura annunciati. Secondo un altro rapporto dello Ieefa (pdf), quindi, i tassi di cattura effettivi sono spesso significativamente più bassi rispetto a quelli teorici, come mostra questa sua illustrazione relativa al settore energetico e dell’idrogeno.
Bisognerà quindi vedere se Eni e Snam riusciranno effettivamente a rispettare le condizioni particolarmente stringenti previste per il loro impianto di cattura.
- Quote catturate insignificanti
Attualmente, sono circa 40 gli impianti commerciali di cattura della CO2 operativi nel modo, secondo la Iea. Questi impianti catturano annualmente 45 milioni di tonnellate di CO2, equivalenti allo 0,12% delle emissioni globali del 2022 legate al solo settore energetico, senza contare gli altri milioni di tonnellate da catturare provenienti dagli altri settori.
Da un punto di vista costi-benefici, dunque, sarebbe molto meglio privilegiare l’elettrificazione diretta anche di molte attività energivore, che sono più elettrificabili di quanto si pensi comunemente, soprattutto per la produzione di calore di processo, anche a temperature superiori ai 200 °C.
Ancora più insignificante e incredibilmente costoso sarebbe poi l’apporto alla decarbonizzazione di un’altra forma di CCS, cioè la cattura diretta dell’aria (Dac), che presenterebbe un rapporto costi-benefici insostenibile e inaccettabile (Cattura CO2, acceso in Islanda il più grande impianto di cattura diretta dell’aria al mondo).
- Sussidi necessari alla CCS (e agli utili d’impresa?)
Una delle critiche fondamentali contro la CCS è che si tratti di una foglia di fico dietro cui le società degli idrocarburi possono nascondersi per continuare a estrarre gas e petrolio il più a lungo possibile, rimandando sine die un reale taglio delle emissioni.
Un corollario di questa critica è rappresentato dalla possibilità che la CCS fornisca una nuova fonte di sussidi, necessaria sia per sostenere l’attività stessa di CCS, sia per puntellare gli utili complessivi delle società del settore.
Come accennato, storicamente, la CCS applicata al di fuori della Eor (recupero di altro petrolio), è risultata spesso economicamente insostenibile senza sussidi pubblici, nonostante sia tecnologicamente una pratica in circolazione da una cinquantina d’anni, che avrebbe dovuto quindi imparare a camminare con le proprie gambe, se solo si fosse dimostrata una soluzione ragionevole per il mercato.
È interessante fare un breve confronto fra gli utili di Eni e Snam, i due partner della joint venture di Ravenna, e i sussidi ambientalmente dannosi (Sad) erogati in Italia ai settori dell’energia e dei trasporti, cioè quelli che più direttamente interessano le due società. Gli ultimi dati disponibili sui Sad sono riferiti al 2022, quindi li raffronteremo con gli utili delle due aziende nello stesso anno.
Nel 2022, Eni ha registrato un utile operativo di 16,5 miliardi di euro e Snam di 1,36 miliardi di euro. Sempre nel 2022, i sussidi ambientalmente dannosi erogati ai settori energia e trasporti sono stati, rispettivamente, di 52,2 miliardi di euro e 20,5 miliardi di euro, per complessivi 72,7 miliardi di euro.
In questa breve analisi fatta su un tovagliolino, senza pretese di scientificità, poco importa che sia gli utili che i sussidi siano aumentati rispetto agli anni precedenti a causa della crisi energetica. L’aumento dei prezzi energetici ha innescato un aumento dei sussidi pubblici ma il rapporto fra utili operativi e sussidi non sembra cambiato radicalmente dagli anni precedenti.
I sussidi pubblici sono di natura molto varia e certo non ne beneficiano esclusivamente Eni e Snam, ma sembra lecito ipotizzare che una fetta relativamente grande di quei 72,7 miliardi vada a irrobustire direttamente o indirettamente gli utili operativi delle due aziende, che ricoprono una quota importante di quei due mercati.
Eni, per esempio, ha una quota di mercato di oltre il 21% in Italia in segmenti primari come la raffinazione petrolifera e la distribuzione di gas al dettaglio.
Si può ipotizzare, ritagliando questi dati un po’ con l’accetta, che Eni abbia beneficiato direttamente o indirettamente del 21% dei Sad elargiti in Italia nei settori in cui è attiva? Il 21% di 72,7 miliardi di Sad nei comparti energia e trasporti sono 15,2 miliardi di euro. Se poi, volessimo aggiungere al conto anche i Sad erogati al settore agricoltura, la cui parte preponderate è costituita da agevolazioni per i carburanti, rientranti quindi sempre nell’ambito di mercato di Eni, i Sad complessivi dei tre settori considerati salgono a 75,9 miliardi di euro. Adottando sempre il 21% come quota di mercato ipotetica di riferimento, i sussidi che direttamente o indirettamente potrebbero avere beneficiato Eni salirebbero a 15,9 miliardi di euro.
Cosa ne sarebbe stato dei 16,5 miliardi di utili operativi di Eni senza gli ipotetici 15,2 miliardi o 15,9 miliardi di Sad di cui potrebbe avere beneficiato? Gli utili sarebbero stati molto inferiori? Non sembra del tutto da escludere.
Poiché si parla da tempo della necessità di ridurre o eliminare i Sad, anche a favore dei sussidi ambientalmente favorevoli (Saf), puntare decisamente sulla CCS potrebbe essere un modo per queste aziende di prevenire la possibile riduzione dei Sad, posizionarsi per intercettare i nuovi sussidi presumibilmente in arrivo da Italia e Ue per la CCS e sostenere utili operativi che senza sussidi potrebbero rivelarsi molto più esangui.
In questo caso, la CCS servirebbe molto di più ad aiutare i bilanci aziendali delle due società che non a usare in maniera saggia il bilancio di carbonio residuo che possiamo permetterci di spendere come collettività senza peggiorare la crisi del clima.
Sembra quindi più vantaggioso uno sforzo maggiore per tagliare subito le emissioni con tecnologie di elettrificazione dei consumi e di efficienza energetica, piuttosto che un perpetuarsi delle emissioni con uno sforzo maggiore a favore della CCS.