Le dispute legali tra Stati e imprese oil&gas che mettono a rischio la transizione energetica

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Ci sono clausole negli accordi internazionali che potrebbero far perdere ai governi fino a 340 miliardi di $ a livello mondiale per contenziosi con le compagnie fossili in caso di blocco di progetti già avviati. Quali soluzioni?

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La transizione energetica ha un problema in più da affrontare: le possibili cause legali delle compagnie fossili contro gli Stati.

Infatti, esistono delle clausole negli accordi internazionali per il commercio e gli investimenti che potrebbero produrre queste dispute se gli Stati cercheranno di bloccare la futura estrazione di petrolio e gas di progetti già in parte avviati, allo scopo di tagliare le emissioni inquinanti.

In ballo ci sono fino a 340 miliardi di $ di potenziali perdite economiche per i governi se fossero sconfitti nei tribunali in simili contenziosi.

Questa cifra supera la finanza pubblica per il clima elargita a livello mondiale nel 2019-2020, che si è fermata a circa 321 miliardi di $. Il punto è che le dispute legali rischiano di dirottare somme consistenti di denaro verso le casse dei produttori fossili, limitando così la capacità dei Paesi di finanziare politiche per mitigare i cambiamenti climatici e per adattarsi agli impatti del surriscaldamento globale.

È il focus di uno studio pubblicato su Science, dal titolo “Investor-state disputes threaten the global green energy transition” (link in basso), realizzato da un gruppo di ricercatori di università americane e canadesi.

Nella sintesi fatta dal Global Development Policy Center della Boston University, si ricorda innanzitutto che per ridurre le emissioni di CO2 come richiesto dagli impegni climatici internazionali, occorre uscire dalla produzione e dal consumo di carburanti fossili.

Tuttavia, non basta che gli Stati smettano di autorizzare nuovi investimenti oil & gas: dovranno anche fermare i progetti già in corso di sviluppo o che hanno già ottenuto almeno un permesso di esplorazione, anche se devono ancora raggiungere la decisione finale di investimento.

E in tutti questi casi, evidenziano gli autori dello studio, è alto il rischio che gli investitori decidano di ricorrere al procedimento internazionale di risoluzione delle controversie noto come ISDS, Investor-state dispute settlement.

Difatti, molti accordi per investimenti nel settore energetico prevedono la possibilità di utilizzare tale procedimento se insorgono dispute tra Stati e aziende.

Eventuali scontri potrebbero nascere proprio per questioni ambientali. Da una parte, gli Stati che cercano di bloccare progetti fossili incompatibili con i traguardi climatici e con le norme per tagliare le emissioni; sul fronte opposto, le multinazionali del gas e del petrolio che si vedono ostacolate nelle loro attività e temono di perdere futuri profitti.

I ricercatori hanno utilizzato il database UCube di Rystad Energy che contiene oltre 55.000 progetti upstream (esplorazione, produzione) di petrolio e gas in 159 Paesi, che dovranno raggiungere una decisione finale di investimento tra 2022 e 2050 e che intanto si sono aggiudicati almeno un permesso di esplorazione.

Poi hanno incrociato questo database con i dati di oltre 1.800 accordi internazionali di investimento che prevedono il ricorso ai procedimenti ISDS, e hanno ipotizzato differenti scenari in base alle stime sui prezzi futuri del petrolio.

È emerso che il 19% dei progetti (circa 10.500 delle iniziative oil & gas censite nel database), in 97 Paesi, è protetto da accordi bilaterali o multilaterali di investimento ed è quindi a rischio di finire in una disputa legale se venisse bloccato, per un valore complessivo stimato tra 60 e 234 miliardi di $, in base alle quotazioni future del petrolio (si veda il grafico sotto).

A ciò bisogna aggiungere circa 225 progetti in corso di sviluppo in 62 Paesi, a loro volta protetti da decine di trattati internazionali, per un valore aggiuntivo di 32-106 miliardi di $.

Tra i principali trattati che possono portare a contenziosi legali in campo energetico, sottolinea lo studio, troviamo il cosiddetto Energy Charter Treaty cui hanno aderito 50 Paesi, perlopiù europei.

In sostanza, i Paesi con grandi quantità di asset fossili in mano a compagnie straniere, hanno un elevato rischio di rimanere coinvolti in contenziosi legali e di dover sborsare miliardi di dollari in compensazioni finanziarie, in caso di stop anticipato ai progetti oil & gas sui loro territori.

Tra gli Stati maggiormente a rischio di dover compensare economicamente le compagnie fossili, si parla di Mozambico, Guyana, Venezuela, Russia e Gran Bretagna.

Quali sono le possibili soluzioni?

Lo studio suggerisce un approccio abolizionista: i governi dovrebbero porre fine ai trattati che prevedono opzioni ISDS o rinegoziare tali accordi, in modo che non ci sia più la spada di Damocle dei contenziosi a pendere sulle politiche nazionali volte ad accelerare la transizione energetica pulita.

Oppure, gli Stati potrebbero togliere il loro il consenso alla possibilità di ricorrere ai procedimenti ISDS, in tutti i casi che riguardano gli investimenti in fonti fossili.

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