I contenziosi legali relativi ai cambiamenti climatici aumentano di anno in anno, con una notevole accelerazione dal 2015 in poi e in particolare tra il 2020 e il 2022.
Tra il 1986 e il 2014 si contano complessivamente poco più di 800 casi legali incentrati sul clima; mentre dal 2015 a oggi se ne contano oltre 1.200, tanto che il numero cumulato di contenziosi nel database globale di questo tipo di attività ha superato quota 2.000 (oltre il doppio rispetto a otto anni fa).
La maggior parte dei contenziosi (1.426) finora è approdato nei tribunali degli Stati Uniti, ma si segnala un incremento di casi negli altri Paesi, compresi quelli nel sud del mondo.
E circa il 25% delle 1.200 cause legali climatiche presentate dopo il 2015, è stato depositato negli ultimi 3 anni.
I numeri arrivano dal rapporto “Global trends in climate change litigation” (link in basso), basato sul database Climate Change Laws of the World (CCLW), aggiornato a maggio 2022 e gestito dal Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment, un istituto di ricerca della London School of Economics.
Nel documento si evidenziano alcune tendenze; tra queste, la crescita delle cause legali promosse da organizzazioni non governative e cittadini contro le grandi compagnie fossili, le cosiddette carbon majors ritenute responsabili del cambiamento climatico, a causa del loro business di estrazione e produzione di combustibili fossili.
Altri settori industriali sono sempre più coinvolti nei contenziosi di questo tipo, in particolare le aziende alimentari, quelle della plastica e quelle attive nei trasporti e nella finanza.
Di grande rilevanza sono i cosiddetti casi “framework”, cioè contenziosi che chiamano in causa gli impegni dei governi sul clima e sulle politiche energetiche, dove cittadini e Ong chiedono alle loro istituzioni di rafforzare e rispettare questi impegni, in modo che la risposta politica al cambiamento climatico sia adeguata ed efficace.
Un esempio è la storica sentenza del 2018 in Olanda nella disputa Urgenda-Stato olandese, dove i giudici hanno stabilito che il governo deve fare di più per ridurre le emissioni di anidride carbonica, rimarcando così la responsabilità politica dei governanti nel proteggere la salute e la vita stessa dei cittadini.
Altra sentenza di fondamentale importanza per la giustizia climatica è arrivata sempre in Olanda nel 2021.
La corte distrettuale dell’Aia ha stabilito che Shell dovrà ridurre del 45% le sue emissioni nette di CO2 entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019, accogliendo così le richieste di Friends of The Heart Netherlands (Milieudefensie) e di altre sei associazioni ambientaliste.
Tra le motivazioni della sentenza ci sono anche dei richiami ai diritti umani: il gruppo Shell, infatti, è uno dei maggiori produttori mondiali di combustibili fossili e “questo contribuisce al surriscaldamento globale, che causa pericolosi cambiamenti climatici e crea gravi rischi per i diritti umani, come il diritto alla vita […]. È generalmente accettato che le aziende debbano rispettare i diritti umani. Questa è una responsabilità individuale delle aziende, che è separata dalle azioni degli Stati. Questa responsabilità si estende anche a fornitori e clienti” (neretti nostri nella citazione).
Da ricordare anche una sentenza storica in Germania sempre nel 2021, quando la Corte costituzionale ha in parte bocciato la legge clima del 2019. In quella occasione i giudici hanno affermato che la legge non facesse abbastanza per tagliare le emissioni di CO2 e che quindi fosse in contrasto con la tutela dei diritti costituzionali delle generazioni future (proprietà, libertà, salute).
Di conseguenza, Berlino ha rafforzato gli obiettivi della politica energetica: tagliare le emissioni del 65% al 2030 (rispetto al 1990) e raggiungere la neutralità climatica già nel 2045 anziché nel 2050.
Sta anche aumentando, evidenziano poi gli autori dello studio, il numero di casi legali con ambizioni strategiche, dove i ricorrenti puntano a una trasformazione sociale più ampia, da raggiungere attraverso una maggiore consapevolezza pubblica su come agire per mitigare i cambiamenti climatici.
Spesso i ricorrenti chiedono a governi e aziende di adottare standard climatici più severi a diversi livelli (normative nazionali, singoli progetti, filiere industriali). In alcune occasioni si promuove un contenzioso legale contro il climate-washing, cioè la pratica del greenwashing riferita agli obiettivi climatici.
Ciò avviene quando istituzioni e aziende diffondono informazioni false o fuorvianti sulle loro azioni per combattere il cambiamento climatico, lasciando intendere di essere green e impegnate per il clima, mentre continuano a fare il contrario, ad esempio emettendo grandi quantità di gas serra, distruggendo ecosistemi e così via.
Gli autori sottolineano che il panorma dei contenziosi climatici è in costante evoluzione. Nei prossimi anni, ad esempio, è probabile che assisteremo a un maggior numero di casi legali che metteranno in discussione quei traguardi climatici eccessivamente basati sulle tecnologie e soluzioni per catturare o rimuovere le emissioni di CO2.
Difatti, molte compagnie fossili, nei loro piani di decarbonizzazione, fanno molto affidamento sulla rimozione futura della CO2, ad esempio con piani di riforestazione o investimenti per progetti CCS (Carbon Capture and Storage), anziché prevedere una riduzione immediata e profonda delle emissioni di gas serra.
E questo permette ai big del fossile di posticipare gli impegni climatici continuando a produrre gas e petrolio.
Altri argomenti che potrebbero essere inclusi nelle cause legali pro-clima sono le relazioni tra clima e tutela della biodiversità, oltre che le “perdite e danni” imputabili alla mancata azione per mitigare gli effetti del global warming.
Nello studio si citano anche le cause legali “non allineate al clima”, come quelle intentate dalle aziende fossili contro i governi per contestare leggi ambientali troppo severe, che secondo i ricorrenti andrebbero a penalizzare determinate attività economiche.
Un esempio sono le cause regolate dai meccanismi internazionali ISDS (Investor-State Dispute Settlement), dove le aziende possono chiedere risarcimenti ingenti se ritengono che le leggi ambientali danneggino impianti e infrastrutture fossili, portando alla loro chiusura anticipata con il rischio che diventino stranded asset (asset improduttivi e quindi in perdita).
È una procedura prevista anche dalla Carta dell’energia (Energy Charter Treaty), la cui nuova versione ha preso forma a fine giugno, grazie a un accordo di compromesso raggiunto tra le 53 Nazioni che vi aderiscono; ricordiamo che il nostro Paese era uscito dal trattato nel 2016, anche se continuerà a subirne gli effetti per parecchi anni per gli investimenti effettuati entro quella data.
La Carta ora è più allineata agli obiettivi climatici e di transizione energetica verso le tecnologie pulite: su base volontaria, i Paesi potranno eliminare la protezione per gli investimenti esistenti in combustibili fossili dopo dieci anni dalla entrata in vigore delle nuove norme (invece dei 20 anni previsti dalla legislazione vigente).
L’Unione europea e la Gran Bretagna hanno deciso di escludere dalle protezioni gli investimenti esistenti in carbone, gas e petrolio dopo dieci anni e quelli nuovi “con limitate eccezioni” dal 15 agosto 2023.
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