Bioenergie, biocombustibili e istituzioni Europee: un quadro incerto e confuso

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La bioenergia e in particolare i biocombustibili hanno grandi potenzialità per l'economia. Ma le istituzioni europee danno ancora un quadro problematico e confuso. Un articolo di Davd Chiaramonte e Matteo Prussi ripercorre i principali passaggi del confronto presso le istituzioni comunitarie. L'articolo è stato pubblicato sul n. 2 della rivista bimestrale QualEnergia.

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Il settore dei biocombustibili e, più in generale, delle bioenergie, nel corso del 2013 è stato oggetto di grande attenzione da parte delle Istituzioni Comunitarie, ed ha rappresentato un tema sul quale non è stato ancora possibile trovare un accordo. L’argomento dovrà quindi essere ripreso nel corso del 2014, molto probabilmente durante il periodo di Presidenza Italiana.

Ripercorriamo, innanzi tutto, quali sono state le principali motivazioni che nel mondo hanno spinto verso lo sviluppo delle tecnologie per la produzione di biocombustibili avanzati (cosiddetti di seconda generazione):

  • Un bilancio ambientale (riduzione delle emissioni serra, bilancio del carbonio) migliore rispetto ai carburanti di prima generazione, che generalmente (salvo alcuni casi, prevalentemente extra-Europei) offrono prestazioni modeste, con bilancio serra in taluni casi anche prossimi a zero (raramente persino negativo)
  • Qualità dei biocombustibili avanzati generalmente superiore a quella dei biocombustibili di prima generazione, e in molti casi completamente compatibili con le infrastrutture esistenti. Potenzialmente i biocombustibili avanzati possono essere drop-in fuel, cioè combustibili miscelabili in qualsiasi percentuale con quelli fossili, superando quindi anche i limiti tecnici alla miscelazione (blending walls)
  • Possibilità di sostituire anche i combustibili per aviazione, andando quindi ad aggredire un settore responsabile di significative emissioni serra e che per il greening non ha di fatto alternative all’uso di combustibili di origine biologica
  • Nessuna competizione con produzioni food se prodotti da residui, coltivazioni in aree marginali o attraverso un miglior uso del suolo (ciò non vale per i biocombustibili derivati da oli idrogenati, salvo il caso di utilizzo di oli fritti o particolari coltivazioni di oleaginose in aree marginali)
  • Possibilità pertanto di valorizzare anche le aree marginali, dove le produzioni food tradizionali non sono economicamente sostenibili o sufficientemente produttive, creando nuove opportunità in agricoltura
  • Con riferimento alle biomasse lignocellulosiche, maggiore resa di biomassa per ettaro rispetto alle coltivazioni convenzionali, e quindi minori costi attesi per unità (ton) di prodotto a parità di resa economica per ha per l’agricoltore, in particolare nel caso delle colture poliennali
  • Relativamente alla filiera biogas/biometano, possibilità di ricorrere a tecniche di coltivazione (ad es catch cropping ed inter cropping, rotazioni, sostituzione di fertilizzanti fossili con altri di origine biologica – digestato, ecc) ad elevata sostenibilità e land/carbon efficiency
  • Costi operativi negli impianti di seconda generazione in prospettiva potenzialmente inferiori rispetto a quelli di prima generazione, a fronte di maggiori costi di investimento. Possibilità di essere in futuro competitivi con i combustibili fossili senza supporto, dove ve ne siano le condizioni

Di queste motivazioni, in effetti possiamo dire che ad oggi solo la prima è pienamente presente sul tavolo della discussione a Bruxelles, mentre le altre si trovano in una posizione ancora marginale: in altri termini, il loro peso nelle valutazioni sulle politiche Europee è secondario. Forse perché si tratta di valutazioni maggiormente complesse che non consentono facili semplificazioni.

Cerchiamo adesso di riesaminare brevemente i principali passaggi del confronto presso le Istituzioni Comunitarie, per comprendere quali siano gli argomenti sul tavolo e cercare di svolgere un’analisi della situazione e dei possibili sviluppi futuri.

Al termine del 2012 la Commissione Europea aveva avanzato un proposta di Direttiva attraverso la quale proponeva emendamenti alle precedenti Direttive 98/70/EC (qualità della benzina e del gasolio) e 2009/28/EC (promozione delle fonti rinnovabili di energia, RED). La Commissione con questa iniziativa focalizzava ulteriormente l’attenzione sulla sostenibilità dei biocombustibili, e sul cosiddetto Indirect Land Use Change – ILUC (cambio indiretto nell’uso del suolo). In pratica, gli effetti indiretti determinati quando una certa parte di territorio agricolo in Europa viene dedicata ad una produzione non alimentare (biofuel, nello specifico, ma in realtà qualsiasi produzione di tipo no food), da qualche altra parte nel mondo una superficie più o meno equivalente deve essere dedicata a produrre la stessa quantità di cibo perso a causa della nuova destinazione del suolo.

Il Parlamento Europeo ha esaminato la proposta della Commissione, ed ascoltato le opinioni dei numerosi attori (stakeholders) coinvolti dal dossier. Tale fase ha avuto una sua prima conclusione l’11 settembre 2013, quando il Parlamento ha votato un documento che rappresentava la propria posizione sul tema (sul quale però la rapporteur del Parlamento, M.me Lapage, non ha ottenuto il mandato a negoziare con il Consiglio).

Successivamente, e siamo ormai giunti agli ultimi mesi del 2013, il Consiglio ha cercato di elaborare un proprio compromesso tra i pareri dei diversi Stati Membri. Il 12 dicembre 2013 però il Consiglio stesso non è riuscito a definire una posizione comune, lasciando di fatto aperto il dossier biofuel. In questa occasione si sono trovati contrari alla proposta di compromesso presentata dalla Presidenza Lituana diversi Paesi che ritenevano il testo o troppo debole e o troppo ambizioso, soprattutto relativamente al limite (cap) alla produzione di biocombustibili di prima generazione.

Ad oggi la situazione è dunque molto confusa, e l’intero settore si trova in una condizione di grande incertezza che  mette a rischio lo sviluppo futuro. I principali elementi su cui si è focalizzato il confronto e sui quali Commissione, Parlamento e Consiglio hanno mostrato visioni significativamente diverse sono riassunti nella tabella.

Analizziamo adesso quanto emerso dal serrato confronto Istituzionale avvenuto nel 2013 in Europa, e destinato a proseguire nel corso del 2014.

È innanzi tutto da sottolineare come ancora ad oggi la stessa definizione di “biocombustibili avanzati non sia del tutto chiara e condivisa, ma sia piuttosto oggetto di un acceso confronto. La definizione dovrebbe combinare sia le materie prime che le tecnologie, identificando le soluzioni più sostenibili, ma in realtà non è ancora così ed in questo l’Europa marca una differenza con altre regioni del mondo, quali USA e Brasile. Quali sono i fattori che definiscono un combustibile avanzato? La riduzione delle emissioni serra, l’efficienza nell’uso del suolo,le tecnologie impiegate, altro? Come si pesa l’importanza dei vari fattori?

Un ulteriore elemento che appare evidente sin dal primo documento della Commissione è il passaggio dal tema “riduzione di gas serra”, caratteristico sino ad oggi delle Direttive Comunitarie sul tema delle Energie Rinnovabili, a quello dell’ “uso del suolo”, tenendo però sempre come riferimento principale la sola riduzione delle emissioni climalteranti e non integrandolo e “pesandolo”, se non marginalmente, con altri fattori altrettanto importanti. Forse sta proprio qui il maggiore e più macroscopico  “peccato originale” in tutta questa vicenda: passare infatti ad affrontare il tema dell’uso del suolo significa esaminare contemporaneamente ed in modo integrato molti temi complessi, oltre a quello delle emissioni serra.

Da quelli di carattere più strettamente ambientale, come il presidio del territorio, la biodiversità, la lotta all’erosione, il controllo di fenomeni eccezionali quali il rischio di alluvioni (solo per citarne alcuni), al turismo ed alla qualità della vita (legati ad esempio alla qualità del paesaggio), a quelli più strettamente socioeconomici, quali lo sviluppo delle produzioni agricole (intersecandosi in questo con gli indirizzi definiti dalla Politica Agricola Comunitaria), l’indipendenza energetica, e allo sviluppo economico – in un periodo di crisi – dell’industria e dell’agroindustria Europea. Peraltro, in ambiti (ad es, quello metalmeccanico, del biogas, dei carburanti avanzati) dove tipicamente l’industria Europea e Nazionale è ben presente con piccole, medie e grandi aziende efficienti e potenzialmente ben posizionate sui mercati. Esaminare contemporaneamente le implicazioni di tutti questi elementi è questione molto difficile, che va ben oltre il solo aspetto relativo alle emissioni-serra e che richiede studi oggettivi e focalizzati: probabilmente non è stato dedicato sufficiente tempo e risorse per acquisire le conoscenze necessarie a sviluppare uno scenario integrato. Questo potrebbe trovare il suo naturale ambito di applicazione nel periodo 2020-2030.

Un terzo elemento è quello definito dalle colture energetiche/dedicate, intendendo con questo un ampio gruppo di risorse, sia integrate con le colture tradizionali che ad esse sostitutive (su cui nel merito non entreremo in questa sede). Se da un punto di vista strettamente industriale/agroindustriale una corretta convivenza tra residui e colture dedicate rappresenta un elemento di equilibrio e di riduzione di rischio dei progetti, dal punto di vista agricolo significa cogliere opportunità altrimenti destinate ad essere perse. La situazione tra gli Stati Membri non è poi così diversa in termini di Superficie Agricola Utilizzata – SAU (UAA, Utilized Agricultural Area): come noto (vedi Monni e Pignatelli, Qualenergia Sett-Ott 2013), il nostro Paese ha perso numerosi milioni di ettari negli ultimi 30-40 anni, e questo è avvenuto per numerose cause ben diverse dalla produzione di biocombustili (in primis, cementificazione da un lato e insufficiente redditività agricola all’altra). In realtà, se andiamo a confrontare su base statistica (Eurostat) la SAU di alcuni tra i principali Paesi Europei, vediamo che la tendenza è generalizzata, anche se il nostro Paese spicca tra gli altri.

Esaminando il periodo 1990-2010 l’Italia mostra quasi il 20% di SAU perduta, la peggior performance tra i Paesi esaminati: dai circa 15,9 Milioni di ha del 1990 (Eurostat) ai circa 12,9 del 2010.

Questa situazione di abbandono determina anche altre conseguenze, pur sempre di carattere strettamente ambientale legate, quali ad esempio erosione del suolo e rischio di alluvioni: nonostante ciò, se andassimo ad eseguire un bilancio ambientale limitato alle mere emissioni-serra su questi terreni, se ne ricaverebbe un risultato netto positivo, concludendo cioè che l’abbandono ha determinato un beneficio quando in realtà – oltre a peggiorare la situazione socioeconomica locale  – ha avuto un aspetto chiaramente negativo su altri ed altrettanto importanti aspetti ambientali.

Estendiamo ora questa analisi al fattore ILUC, origine della revisione della direttiva RED tanto da darne il nome “comune” (Direttiva ILUC). In ambito scientifico da anni si dibatte sull’argomento, senza trovare un reale consenso. Modellare l’uso indiretto del cambio del suolo significa infatti sviluppare un modello in grado di trattare in modo dinamico ed a scala globale una enorme molteplicità di aspetti, dai mercati del food, alla variazione dell’uso del suolo, alle variazioni demografiche nelle diverse aree geografiche, alla produzione di combustibili fossili e rinnovabili ed alle dinamiche dei loro prezzi nei prossimi 10-20 anni, ecc.

Operazione non solo davvero complessa, ma anche molto ambiziosa e che inevitabilmente genererà sempre risultati molto discutibili e soggetti a grande variabilità e potenziali errori. Incardinare lo sviluppo delle politiche energetiche ed ambientali attorno alla pretesa di fornire una valutazione scientificamente esatta di queste dinamiche significa a nostro avviso pretendere dalla scienza un risultato che questa non può fornire, e le scelte che ne conseguono possono persino risultare assurde in alcuni casi.

La questione è talmente complessa che in altre regioni del mondo, a valle di studi specifici su una determinata coltura, si tende a classificare semplicemente se questa sia o meno “ILUC”, e se quindi richiede una ulteriore analisi e certificazione in tal senso. Chiaramente da un punto di vista scientifico si tratta di una semplificazione, giustificata solo da un approccio pragmatico, in quanto le valutazioni variano secondo l’area geografica, gli anni di riferimento, etc. Ciò però consente ad una impresa di concentrarsi sulle colture “non-ILUC”, con notevole semplificazione gestionale, risparmio di costi, e favorendo la realizzazione concreta dei progetti. Viceversa, una complessa applicazione caso per caso dell’effetto ILUC può facilmente causare il blocco dell’iniziativa stessa, a frone peraltro di risultati non univocamente condivisi e verificabili.

Al momento, come illustrato precedentemente, questa indecisione nella definizione di chiare policy di settore sta determinando uno stallo negli investimenti in Europa. Ciò significa che le imprese – dopo aver investito, anche con il supporto dell’Unione Europea e degli Stati Membri, nello sviluppo di tecnologie di seconda generazione – andranno probabilmente a realizzare i loro progetti nelle aree dove esistono condizioni più favorevoli e sistemi di gestione più chiari e semplici. L’Europa, in un momento in cui le proprie aziende sono leader nel settore ed in vantaggio rispetto ai concorrenti, perderà così una grande opportunità per nuovi investimenti che avrebbero avuto un notevole impatto in termini di occupazione diretta ed indiretta nel comparto industriale, e occupazione in ambito agricolo.

Le principali aree dove è ragionevole attendersi questo sviluppo sono il Nord e il Sudamerica, e l’Asia. In tali zone le condizioni sono favorevoli sia da un punto di vista tecnico (disponibilità di grandi volumi di biomassa, sia dedicata che residuale, a costi contenuti e mediamente inferiori a quelli Europei; sistemi di gestione e tracciabilità più semplici, soprattutto per le colture lignocellulosiche), che finanziario (programmi di supporto alle iniziative industriali, in grado di fornire le garanzie di progetto senza richiederlo alle imprese, e quindi favorire la bancabilità delle iniziative – ad esempio US-DOE e BR-BNDES).

Ultimo ma non secondario aspetto, l’intero settore delle bioenergie si presenta in questo periodo in grande effervescenza proprio dal punto di vista dell’innovazione e della ricerca. I risultati sin qui conseguiti – ed anche in Europa ed in Italia – nel corso degli ultimi anni, soprattutto in termini di frazionamento (pretrattamento) della biomassa e delle tecnologie e processi di upgrading e conversione downstream dei prodotti solidi, liquidi e gassosi in combustibili e prodotti chimici, hanno aperto numerose opportunità di sviluppo di nuove filiere di bioraffinazione, a piccola, media e grande scala. Una situazione davvero eccitante sia per i ricercatori che per l’industria, che rischia però di essere depressa anziché stimolata dall’incertezza delle politiche.

Si potrebbe davvero oggi ampliare l’approccio alle bioenergie e biopdorotti, da “Smart Grid” a “Smart Green, una nuova definizione che proponiamo per indicare come la generazione elettrica possa divenire sempre più solo uno dei numerosi possibili prodotti, e in molti casi non il principale od il più interessante. Ma il quadro di policy di riferimento deve essere in grado di cogliere questa opportunità.

Per uscire da questo impasse è necessario che le Istituzioni Europee (Commissione, Consiglio ed il nuovo Parlamento Europeo che entrerà in forza dopo maggio 2014) riescano a recuperare il tempo perduto e definire una strategia e delle politiche chiare, applicabili e di lungo termine, in grado di tenere in considerazione tutti i fattori che caratterizzano il complesso mondo delle bioenergie.

Purtroppo la recente comunicazione della Commissione Europea “Energy and Climate Goals” del 22 Gennaio 2014 non sembra molto promettente per il settore, e gli obiettivi indicati modesti (40% di riduzione emissioni serra, e 27% di Fonti Rinnovabili, nessun target per l’uso razionale dell’energia, e obiettivi vincolanti solo a livello EU e non di Stati Membri), ma la discussione sugli obiettivi al 2030 è solo all’inizio. Il Parlamento ha già votato (5 Febbraio 2014) a favore di obiettivi vincolanti (per ciascun Stato Membro) più ambiziosi (almeno 30% di energia da Fonti Rinnovabili, e 40% di crescita nell’efficienza energetica), e sicuramente il 2014 vedrà un ampio dibattito sul tema. Definire un subtarget vincolante per i trasporti sarebbe necessario, in un settore che in EU ha visto crescere le proprie emissioni del 36% dal 1990, e che oggi è responsabile per circa il 25% delle emissioni serra complessive.

L’articolo è stato pubblicato nel n.2/2014 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “L’insostenibile incertezza”.

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