Fonti rinnovabili e sistemi di accumulo, tra necessità e ostacoli

Gli accumuli diventano sempre più necessari per garantire sicurezza ed efficienza del sistema elettrico, ma incontrano diversi ostacoli, soprattutto di natura economica. Ne parliamo con Luigi Mazzocchi di RSE, chairman del convegno “Lo storage di elettricità e l'integrazione delle rinnovabili nel sistema elettrico” che si terrà l'8 maggio a The Innovation Cloud a Milano.

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Con le rinnovabili non programmabili sempre più protagoniste, il tema dello storage è ormai centrale nel dibattito sul futuro del mondo elettrico. Gli accumuli diventano sempre più necessari per garantire sicurezza ed efficienza del sistema, e suscitano interesse anche da parte dei piccoli produttori da eolico e fotovoltaico, ma la loro diffusione incontra diversi ostacoli, soprattutto economici. Ne parliamo con l’ingegner Luigi Mazzocchi, di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico) che l’8 maggio a The Innovation Cloud a Milano sarà chairman di un convegno dal titolo “Lo storage di elettricità e l’integrazione delle rinnovabili nel sistema elettrico”.

Ing. Mazzocchi, il tema dello storage è diventato sempre più di attualità. Quali sono i cambiamenti avvenuti nel sistema elettrico che rendono più importante poter accumulare energia?

L’esigenza di disaccoppiare in qualche misura la produzione di elettricità dal suo consumo c’è sempre stata ma è molto aumentata con l’immissione in rete di grandi quantità di energia da fonti rinnovabili non programmabili. Oggi abbiamo circa 25mila MW di potenza installata tra eolico e fotovoltaico: tanto da pareggiare, grosso modo la domanda in momenti di basso carico, come avviene in una giornata festiva. Si possono avere situazioni, anche a livello regionale, in cui la quantità di macchinari rotanti in funzione – cioè turbine a vapore a gas o idroelettriche – è piuttosto limitata e dunque c’è una carenza di capacità regolante su diverse scale temporali: da quella delle frazioni di secondo a quelle delle decine di minuti o ore. In questi momenti c’è necessità di fare aggiustamenti della produzione in funzione dell’andamento della domanda e anche della produzione stessa, dato che ad esempio il fotovoltaico cessa di produrre abbastanza bruscamente al tramonto. L’esigenza di sistemi di accumulo dunque sarà sempre maggiore quanto più aumenterà la produzione delle rinnovabili non programmabili.

Di fronte a questo lascia perplessi un dato: l’utilizzo degli accumuli, ossia dei pompaggi idroelettrici, in Italia in questi ultimi anni, nonostante il boom delle rinnovabili non programmabili, è crollato (si veda grafico qui, cortesia RSE). Perché?

Guardando ai dati la situazione è abbastanza paradossale. Tra l’altro c’è una strana coincidenza: la produzione da pompaggio ha iniziato a calare in concomitanza con l’avvio del mercato liberalizzato, passando dalle oltre 1000-1500 ore per anno degli anni migliori alle 200-300 di oggi. Le spiegazioni sono diverse. Una, più tecnica, è che questi impianti funzionano ancora al servizio del sistema elettrico, ma in maniera diversa: offrono servizi di regolazione primaria e secondaria, muovono poca energia ma danno prestazioni importanti, ad esempio agendo sui picchi di potenza. Poi questi impianti si trovano per la maggior parte sull’arco alpino, mentre gran parte della produzione da rinnovabili non programmabili è al centro-sud: il loro utilizzo è dunque inibito da vincoli di rete. Ci sono infine considerazioni commerciali: un produttore che gestisca sia impianti di pompaggio che centrali a ciclo combinato a gas può nella sua economia interna trovare più conveniente bruciare un po’ di gas piuttosto che usare l’acqua e perdere l’occasione di utilizzarla in momenti più remunerativi.

Gli accumuli migliorano l’efficienza del sistema e dunque portano beneficio a tutti, ma richiedono investimenti ingenti a fronte di ritorni lunghi e non certi …

Il problema è questo: ragionando a livello energetico non ha senso sprecare energia che non si può più recuperare, ad esempio tenendo fermo un impianto eolico in momenti di troppa produzione; sembrerebbe dunque più giusto correre a installare accumuli, sia per risolvere eventuali la congestioni locali sia per migliorare l’efficienza del sistema a livello nazionale. Dal punto di vista finanziario però è difficoltoso giustificare un investimento in accumuli. La remunerazione dei servizi offerti, anche per le tecnologie più convenienti come pompaggi e aria compressa, porta a tempi di ritorno dell’investimento piuttosto lunghi: dai 10 ai 20 anni. Si tratta di fare una scelta tra beneficio energetico-ambientale e costi che poi si riversano sugli acquirenti dell’energia elettrica. Nel frattempo andrebbe sfruttata meglio la flessibilità offerta da quel che rimane in servizio del parco termoelettrico e idroelettrico esistente, ad esempio premiando questi impianti per i servizi offerti: un capacity payment fatto in maniera selettiva, che remuneri maggiormente gli impianti con più capacità regolante.

Rimane il discorso che con l’andare degli anni e l’aumento della quota di rinnovabili, i conti con gli accumuli bisognerà farli. Chi dovrà fare questi investimenti?

Ad oggi è stato stabilito che se l’accumulo è di tipo elettrochimico se ne debba occupare il gestore di rete, ossia Terna, mentre per impianti a pompaggio o ad aria compressa dovrebbero essere i produttori a investirvi. La cosa è però asimmetrica: gli investimenti di Terna, soggetti ad approvazione ministeriale, hanno infatti un ritorno garantito, dato che sono remunerati (tramite la componente apposita in bolletta, ndr) a un tasso predefinito, il privato invece deve affrontare tempi di rientro incerti e lunghi. Oltre a questo, il vincolo che fa sì che Terna possa investire solo su sistemi elettrochimici porta a puntare sulle batterie, soluzione meno conveniente rispetto a pompaggi e aria compressa, con conseguente aggravio per gli utenti. Bisognerebbe forse rivedere il quadro normativo.

Il fatto che si punti alle batterie potrebbe migliorare la curva di apprendimento di queste tecnologie: come prevede evolverà il calo dei prezzi per i prossimi anni?

Non è facile rispondere. Da un lato c’è un’aspettativa di forte discesa dei prezzi conseguente ad una maggiore produzione. Dall’altro alcuni produttori negano che le linee produttive, alcune già abbastanza grandi, possano essere ulteriormente ottimizzate per ridurre di molto i costi. Diversi rapporti parlano di futuri cali di prezzi, con il litio che ad esempio costerà un terzo o un quarto nel 2020: se queste previsioni si avverassero, queste tecnologie diverrebbero veramente competitive. Molto dipenderà anche dalla penetrazione dei veicoli elettrici, dato che molte tecnologie sono in comune. Ma, come detto, fare previsioni è molto difficile.

Un ambito in cui i sistemi di accumulo riscuotono sempre più interesse è quello dei piccoli e medi produttori di energia rinnovabile, interessati a massimizzare l’autoconsumo per migliorare il bilancio economico degli impianti. Quali sono le tecnologie più adatte a questo tipo di domanda?

Le tecnologie proponibili per impianti a rinnovabili di piccola e media taglia sono fondamentalmente tre: le batterie al litio, quelle ad elettrolita circolante, ossia le redox, al vanadio, ecc., e infine quelle al sodio ad alta temperatura come la tecnologia Zebra al sodio e cloruro di nichel. Queste sono le tecnologie in concorrenza, che poi hanno sfumature diverse che le rendono più o meno adatte a particolari impieghi. La tecnologia redox ad esempio è un po’ più complessa e dunque meno indicata per impianti sotto al MW di potenza. Per grandi potenze, sopra la decina di MW, è adatta anche la tecnologia sodio-zolfo. Per gli impianti più piccoli dunque la gara è tra ioni di litio e sodio-nichel. Bisognerà poi vedere quale costruttore riuscirà a proporre un prodotto non solo economico ma capace di offrire una certa gamma di servizi: non solo spostare un po’ di energia dal giorno alla notte, ma anche fare da back-up oppure realizzare un taglio dei picchi di domanda per evitare di dover installare una potenza contrattuale più alta. Applicazioni che, se giocate assieme, rendono interessante l’investimento in un sistema di accumulo che diversamente non sarebbe conveniente.

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