Il nucleare ci riprova

  • 17 Ottobre 2006

CATEGORIE:

Dopo anni di stagnazione si riprende a parlare di nucleare. Nel frattempo nessun problema è stato risolto. Un'analisi di Giuseppe Onufrio di Greenpeace

ADV
image_pdfimage_print
Uno spettro si aggira per l’Europa: dopo almeno due decenni di stagnazione l’energia nucleare sembra tornare – al momento più a parole che con i fatti – alla ribalta. Ciò avviene in un momento che vede tornare una crisi energetica e petrolifera legata a vari fattori tra cui anche alle tensioni politiche e ai conflitti che coinvolgono alcuni dei principali paesi produttori.
I motivi di questa ripresa del dibattito sul nucleare sono a mio avviso legati a una causa specifica: nei mercati liberalizzati, USA e Regno Unito anzitutto, da circa 20 anni gli investimenti privati sul nucleare si sono pressoché arrestati. Famosa una copertina dell’Economist dedicata al fallimento della privatizzazione del nucleare in Inghilterra con il titolo: “nuclear? no thanks”. I motivi di questo “rigetto” del nucleare da parte del mercato liberalizzato sono legati agli elevatissimi di costi iniziali, più elevati delle altre fonti, ai lunghi tempi di costruzione e ai rischi finanziari legati a incidenti e malfunzionamenti. Così in questi 20 anni gli investimenti sul nucleare si sono concentrati nel allungare la vita agli impianti esistenti.


Sussidi pubblici al nucleare nel mercato liberalizzato: gli USA

Ma anche investendo in questa direzione, “tirando il collo” agli impianti certo non giova alla sicurezza, prima o poi gli impianti vanno chiusi per vecchiaia. La prospettiva è la chiusura nel giro di pochi anni di decine di reattori in giro per il mondo, molti dei quali negli USA. I richiami al rilancio del nucleare hanno questa origine: il settore rischia un crollo verticale. Così nel 2005 il Congresso Usa ha approvato l’Energy Bill – una sorta di piano energetico – che contiene due novità fondamentali: un incentivo pubblico all’elettricità da nucleare per 1.8 centesimi al kWh fino a una potenza installata di 6.000 MW. E, se si tratta di un impianto “innovativo” (e spesso i nuovi reattori sono “first-of-a-kind”, i primi di un nuovo tipo) il costruttore può accedere a credito agevolato fino all’80% del costo di capitale.
Per rendersi conto dell’enormità di quest’incentivo bisogna confrontarlo con i costi industriali di produzione dell’elettricità. E’ interessante a questo proposito rifarsi alle stime ufficiali del Dipartimento dell’Energia USA (DOE) che periodicamente effettua delle previsioni per impianti ordinati oggi e che entrano in funzione tra 5 o 10 anni. Si tratta ovviamente di stime, ma rappresentano una sorta di “benchmarking”: le fonti tradizionali – carbone e gas – presentano un costo industriale che oscilla attorno ai 5 centesimi di dollaro. Poco sopra si trova l’eolico e il nucleare viene stimato attorno ai 6 centesimi di dollaro. Il differenziale tra kWh nucleare e da gas da nuovo impianto è di circa 1.2 centesimi. In sostanza, l’incentivo concesso nell’estate del 2005 è il 50% superiore al differenziale di costo industriale stimato dal DOE. Si può discettare sulle stime – altre fonti quotano più ragionevolmente il nucleare a 7 – ma rimane il fatto che comunque la si vuole girare il nucleare è ufficialmente la fonte più cara e che in un mercato completamente privatizzato il governo offre soldi dei contribuenti a un’industria in declino.
Il caso della costruzione del finlandese in collaborazione con la francese AREVA – portato come esempio a favore della ripresa del nucleare –conferma la situazione: anche in quel caso vi sono sussidi e garanzie pubbliche (francesi e finlandesi) ai rischi privati. In questi primi mesi, peraltro, la costruzione del reattore di Olkiluoto-3 accumula un mese di ritardo ogni mese di costruzione. In proiezione si prevede un extracosto stimato ad oggi tra 1.5 e 2 miliardi di euro su un investimento iniziale di 3.2.


Il dibattito italiano: una querelle in salsa francese?

A guardare la situazione degli USA il dibattito italiano, riavviatosi su iniziativa di ministri del governo Berlusconi, sembra davvero folle: a differenza degli USA o del Regno Unito, qui non c’è nessuna industria in crisi da difendere ma un piccolo nucleo di resti – con circa 100 mila metri cubi di scorie da gestire – che sopravvive operando all’estero ma che non ha alcuna “massa critica” per far ripartire un settore chiuso dal referendum del 1987.
L’unica novità nel quadro – e che rende questo dibattito meno fuori dal mondo – è la presenza della francese EDF nel mercato italiano – in Edipower – con la querelle posta in sede europea legata all’accesso ai mercati interni e un accordo ancora congelato per la partecipazione di Enel nel progetto del nuovo reattore francese di terza generazione EPR.
Tra le questioni italo-francesi in discussione c’è anche il ritrattamento del combustibile esaurito – processo che estrae Plutonio e Uranio fissile residuo dalle barre di combustibile “bruciato”. Lo scorso anno due azioni dirette degli attivisti di Greenpeace – 12 sono attualmente sotto processo per questa ragione – hanno bloccato per protesta i treni che da Vercelli portavano il combustibile verso l’impianto inglese, attraverso la Francia.
Se in passato le scorie venivano portate a Sellafield, l’impianto inglese della BNFL tristemente famoso per i continui incidenti, da quando questo è stato chiuso dopo l’ultimo incidente (e a causa del disastro economico in cui versa la BNFL), i progetti di ritrattamento si sono rivolti alla Francia, con un contratto in discussione con AREVA – l’ente francese che gestisce il ciclo del combustibile – del valore – secondo le voci che circolano – di 267 milioni di euro.


Una coalizione composita per cercare di sbolognare le scorie all’estero

In realtà una soluzione meno pericolosa del ritrattamento (che richiede trasporto di scorie, emissioni radioattive in acqua e aria, ritorno delle scorie vetrificate) e meno costosa ci sarebbe: lo stoccaggio a secco del combustibile irraggiato. Ma dopo il conflitto di Scanzano – in cui il governo ha cercato di risolvere la questione delle scorie e forse di riaprire il nucleare dalla “coda” – e dopo che inopinatamente si è parlato di “esportare” le scorie altrove, l’invio all’estero per il ritrattamento appare l’unico modo per cercare di “liberarsi” della parte più radioattiva delle scorie nucleari. In realtà nei prossimi anni dovremmo comunque ricevere le scorie vetrificate da Sellafield che, in assenza di un deposito, andrebbero presso i siti che le hanno generate (questa è la normale gestione, se non ci sono controindicazioni).
Una coalizione composita – che include anche comitati locali, regioni, sindaci – è dunque d’accordo su un punto: mandiamo il combustibile irraggiato all’estero e liberiamo i siti dall’ipoteca nucleare. L’aspirazione è comprensibile, ma non è accettabile il ricorso al ritrattamento e nemmeno illudere le popolazioni sulla reale possibilità di liberare del tutto i siti.
L’accordo con AREVA è al momento in itinere. C’è un piccolo ostacolo: la nuova legge francese sulla gestione delle scorie prevede – per il combustibile irraggiato proveniente dall’estero – un accordo intergovernativo che includa il rientro delle scorie vetrificate nel Paese di provenienza. Non è chiaro se nella cifra di 267 milioni di euro per il contratto di AREVA includa anche i costi di rientro e la quota di scorie nucleari in cui è stato “virtualmente” convertito il Plutonio “italiano” (estratto negli anni dalle scorie inviate a Sellafield, per circa 4 tonnellate) dato al progetto Superphenix. Su questo è stata di recente presentata una interrogazione parlamentare dal senatore Francesco Martone.

Lo shopping nucleare sovietico dell’ENEL e di Unicredit
Un altro aspetto del ritorno al nucleare riguarda l’industria dell’ex blocco sovietico. Anche in questo caso la “crisi” è legata alla mancanza prolungata di investimenti, anche se si tratta in generale di industrie di stato privatizzate o privatizzande, nelle quali la “competenza” nucleare è tra le poche esistenti. Proprio nei giorni del ventennale di Chernobyl è stato siglato un accordo quadro tra ENEL e il governo slovacco per l’acquisizione del 66% della Slovenske Electrarne (Se). Nell’accordo, si prevede un piano di investimenti per quasi 2 miliardi di euro di cui l’85% riguarda il completamento delle due unità nucleari a Mochovce del tipo Vver 440/V-213 da 408 MW ciascuna. Queste sono destinate a sostituire le unità operanti a Bohunice (del tipo VVER 440/230), che dovranno essere chiuse tra il 2006 e il 2008 in base all’accordo di partenariato per l’adesione nell’Ue, in quanto al di sotto degli standard minimi di sicurezza.
Si tratta di tecnologia sovietica il cui design di base risale alla fine degli anni ’70. Mochovce è a 100 km a est di Bratislava e a 150 km da Vienna. La costruzione iniziò nel 1984 e nel 1990 si verificò una prima interruzione dei lavori per mancanza di fondi; nel 1993 vi è stata la separazione dalla Repubblica Ceca. Nel 1998 e 1999 entrarono in funzione le prime due unità, mentre la costruzione delle unità 3 e 4 fu bloccata al 50% per mancanza di fondi (e di mercato interno).
La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo rifiutò di finanziare il completamento per mancanza di mercato interno che ne motivasse la messa in funzione. Uno studio dell’Agenzia di stato slovacca nel 2000 valutava in 17 anni il tempo minimo per il ritorno dell’investimento.
Lo studio di fattibilità per il completamento dei reattori era previsto per il maggio 2007 ma sembra che questa data non verrà rispettata.
Il tipo di reattore è ad acqua pressurizzata di seconda generazione (quelli di prima generazione sono considerati non migliorabili e da chiudere). Dopo l’unificazione tedesca un reattore di questo tipo costruito nell’ex DDR a Greisfwald, appena entrato in funzione fu disattivato, mentre la costruzione di altre 3 unità di terza generazione, fu bloccata definitivamente.
Il costo di investimento per il completamento di questi due reattori di vecchio tipo è stimato in 1.6 miliardi di euro per 816 MW, circa 2000 euro/kW, una cifra simile a quella dei reattori occidentali di terza generazione. Inoltre in Slovacchia solo dal 1994 si è iniziato l’accantonamento dei fondi per lo smantellamento dei reattori nucleari slovacchi e la gestione delle scorie. Questo è il motivo per cui si è già creato un deficit oscillante tra 400 e 660 milioni di €. Secondo alcune stime, sarebbe necessario un accantonamento annuale tra 103 e 158 milioni di euro l’anno; il governo slovacco ne prevede meno di 70. Ma nelle trattative con ENEL le stime sono state riviste al ribasso tra 34 e 42 milioni l’anno, cosa che ha suscitato il sospetto di aiuti di stato indebiti.
Unicredit sta invece valutando di partecipare (direttamente e attraverso una controllata HVB) a una gara nucleare in Bulgaria per la costruzione della centrale nucleare di Belene. Si tratta di un possibile investimento in un reattore sovietico della filiera VVER 1000/320 – mai approvato in Europa occidentale – sito in una zona sismica: un terremoto nel 1977 uccise 200 persone in un raggio di 14 km dal sito in cui si propone di costruire la centrale. Lo stesso tipo di reattore è a Temelin nella repubblica Ceca, fortemente contestato dall’Austria per ragioni di sicurezza: nel dicembre 2004 ci fu una perdita di 20.000 litri di acqua di raffreddamento e questo ottobre un ennesimo incidente: cosa deve succedere per far riflettere Unicredit?

Dopo 60 anni di ricerca e sviluppo non è economicamente competitivo e il progetto di reattori intrinsecamente sicuri – la generazione 4 – non vedrà la luce, semmai la vedrà, prima del 2025-2030 secondo gli stessi proponenti. Non è mai stata sviluppata una tecnologia che non sia proliferativa: quella che ci viene proposta è sempre la stessa tecnologia “figlia” della bomba. Non esiste alcuna soluzione credibile di lungo periodo alla sistemazione delle scorie nucleari. Infine, a fronte di un consumo annuale di 70 mila tonnellate di Uranio, le stime più ottimistiche della quantità di Uranio estraibile a costi calcolabili è di 3.5 milioni di tonnellate: 50 anni al livello attuale di consumo che copre circa il 6% del fabbisogno globale di energia. Il nucleare rimane un vicolo cieco.

Giuseppe Onufrio
Direttore delle campagne – Greenpeace Italia

18 ottobre 2006

Potrebbero interessarti
ADV
×