La transizione energetica divisiva: ostacoli politici, economici e culturali

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In Italia e in Europa dobbiamo liberarci dalle fonti fossili. Servirebbe un cambiamento radicale e rapido, ma non c'è consenso su cosa va fatto. E sono così tanti gli ostacoli che richiederebbero una strategia più profonda e su più fronti.

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Abbiamo decine di paesi in transizione energetica. Alcuni stanno accelerando sui piani nazionali di decarbonizzazione, altri meno.

Non lo fanno tanto per i timori climatici, sempre più concreti, ma per la crisi energetica che incombe, con i rischi delle forniture, il peso devastante della spesa energetica sulle economie e i venti di guerra globale che si porta dietro.

Questo è lo scotto che dobbiamo pagare per aver puntato tutto su gas e petrolio, con una strategia per niente lungimirante.

Non siamo stati in grado di avere un orientamento neanche di medio periodo, con governi sempre omologati agli stessi interessi dei grandi gruppi energetici, che guardano però solo al loro core business fossile e ai loro azionisti.

Ce la ricordiamo la loro fasulla affermazione “il gas è il ponte verso la transizione energetica”? Quel ponte sta cadendo a pezzi.

Siamo senza una bussola, come ha detto, guarda caso, proprio uno degli esponenti di quel mondo, che oggi sembra distaccarsi dal pensiero unico fossile-nucleare. Francesco Starace, Ceo del Gruppo Enel ha di recente confermato questa critica: “Qualcuno negli anni passati ha puntato tutto sul gas e per di più su un solo fornitore, Mosca, pur sapendo che i combustibili fossili erano un problema, sia ambientale, sia politico, che la Russia non era un partner affidabile e che la vera strada da battere erano le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica”.

I motivi li abbiamo detti. In Italia poi il percorso della transizione energetico non è affatto condiviso come si vorrebbe far credere. Anzi oggi è molto più divisivo di qualche anno fa. Basterebbe leggere le posizioni dei diversi partiti che abbiamo sentito in campagna elettorale.

È un terreno di scontro molto duro e non crediamo sia più un ambito esclusivo dell’ambientalismo politically correct. Bisognerà sporcarsi le mani anche con chi la pensa diversamente. Servono comunicatori capaci, visioni più innovative e forse qualche numeretto e grafico in meno, che per tanti, lo sappiamo, sono respingenti, è come fargli masticare del vetro.

Nella nostra opinione pubblica (stampa compresa) su questi temi emerge ancora un approccio vecchio come quello di gran parte della classe politica uscente e, quasi certamente, di quella entrante, con le sue ricette economiche dimostratesi finora fallimentari, per non parlare di quelle energetiche e ambientali, superate e che ricalcano antichi modelli da primo Novecento.

Allora che fare? Almeno il Ceo di Enel, contrario alla soluzione nucleare per il nostro paese (“Chi vuole il nucleare danneggia gli italiani”, ha detto), guarda alle rinnovabili perché, dice, “sono la soluzione che ci porterà più in là nel futuro. Nel primo semestre 2022 sono triplicate le domande di connessione alle reti di media e bassa tensione per impianti piccoli e medi, da parte di aziende e privati. Dobbiamo migliorare la capacità delle reti, e se ci saranno autorizzazione più veloci si avrà anche una transizione più rapida”. Bene…

Dal canto suo, gli fa eco l’amministratore delegato di Terna, Stefano Donnarumma, che ha spiegato che a fine agosto le richieste di connessione alla rete di Terna sono pari a 280 GW, circa 4 volte gli obiettivi che l’Italia si è data al 2030. “Realizzare i 70 GW previsti dal piano europeo Fit for 55 porterebbe a un risparmio di oltre 26 miliardi di metri cubi di gas, valore sostanzialmente pari alle quantità che il nostro Paese ha importato dalla Russia negli ultimi dodici mesi”, ha detto.

Ci vorrebbe quindi un’azione politica (inclusa quella locale, ma anche europea) non abbarbicata all’antico modo di fare energia o ad una visione bucolica e congelata di paesaggio (che vediamo spesso quando ci sono da fare turbine e pannelli).

Cosa c’è di più insensato dal punto di vista termodinamico che riscaldare abitazioni e acqua calda sanitaria a temperature relativamente basse con il metano o produrre elettricità a manetta con questa fonte? Perché ancora oggi un’abitazione va riscaldata bruciando gas o gpl?

È molto probabile che il gas consumato in Europa nei prossimi anni sarà sempre meno, grazie a rinnovabili, efficienza e storage, e quindi non dovremo consentire nuove infrastrutture pesanti per questa fonte, perché diventeranno altre cattedrali nel deserto.

In prospettiva, il poco gas che dovremo ancora importare dovrà essere utilizzato per mantenere stabile il sistema elettrico e per quegli utilizzi difficili da alimentare diversamente, cioè per le industrie energivore.

Ma possiamo fare questo radicale cambiamento a ritmi così forsennati? Dovremmo, visto che crisi energetica e climatica si stanno intrecciando e le stiamo toccando da vicino. Ma, c’è un ma…

Torniamo all’inizio. Abbiamo forse quasi un centinaio di paesi in transizione energetica, e tutti sono in grande ritardo perché il nostro modello economico è stato tarato per funzionare solo se pompato da grandi quantità di energia prodotta in maniera tradizionale e centralizzata.

I soldi ci sarebbero pure, e molti paesi stanno cercando di accaparrarsi prodotti e componenti, materie prime, ma l’offerta non è facile da adeguare ad una crescente domanda. Un gap che potrebbe scoraggiare anche quelle strategie più illuminate che si propongono di avviare e indirizzare questo passaggio in modo più veloce e possibilmente equo per la popolazione.

Manca a livello mondiale soprattutto un consistente numero di professionisti che possano mettere a terra questo sviluppo. Lo abbiamo scritto in riferimento al fotovoltaico europeo e lo stesso vale per l’eolico globale che richiede quasi altri 600mila tecnici per costruire e mantenere una flotta eolica globale onshore e offshore che aumenterà del 67% entro il 2026.

Quindi solo per queste due tecnologie nei prossimi anni ci sarà bisogno di oltre un milione di addetti.

In scala più piccola il problema si pone anche in Italia. Lo sanno bene i consumatori e i committenti che aspettano da mesi la realizzazione di impianti, per non parlare dei tempi biblici di connessione alla rete.

Il punto però è che non possiamo né procedere per piccoli passi, ma nemmeno in modo caotico come è stato fatto finora, per evitare di subire e poi reagire “alla coperta corta” delle tante variabili che si mettono in moto: impennata dei prezzi, stop and go delle forniture, policy altalenanti, carenza di operatori, eccetera.

Una strategia efficace e profonda richiederebbe un cambio epocale su tanti, forse troppi fronti: dalla ricerca alla formazione, dalle politiche industriali alla riforma della finanza, fino a normative stabili che favoriscano gli investimenti pubblici e privati in rinnovabili ed efficienza energetica. Un vero green new deal.

Ma, cosa non semplice, servirebbe soprattutto la volontà di iniziare a dirottare migliaia di miliardi di euro dalle fossili e dal settore degli armamenti. Insomma, servirebbe optare per la pace. Dirlo in tempo di guerra, fa quasi tenerezza.

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