La tassonomia europea e la questione del ritorno del nucleare in Italia

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Costi, prezzi dell'uranio, emissioni e sicurezza: qualche dato per riflettere sul nuovo tentativo di riproporre il nucleare.

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La decisione europea sulla “tassonomia” sta riportando in auge il dibattito sul nucleare anche nel nostro paese.

Come abbiamo scritto in un precedente articolo, assistiamo a dichiarazione di politici, industriali e opinion maker che invocano a gran voce il ritorno dell’energia atomica, accusando chi ha ostacolato questa tecnologia di approcci prettamente ideologici.

Ma, come ricorda Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, il referendum del 2011 che bloccò il ritorno del nucleare in Italia ha evitato una catastrofe economica (vedi anche “Perché il nucleare non è una soluzione alla crisi climatica“).

I quattro reattori francesi EPR (European Pressurised Reactor – di generazione III+) che avremmo dovuto costruire in base al memorandum tra Berlusconi e Sarkozy, avrebbero creato quattro “buchi neri” finanziari.

Infatti, secondo la Corte dei Conti francese, l’unico EPR tuttora in costruzione in Francia avrà un costo totale di oltre 19 miliardi di euro contro i 3,3 previsti inizialmente, e nel frattempo Areva, l’azienda francese proprietaria della tecnologia, è fallita.

Anche il costo del reattore finlandese EPR di Olkiluoto 3, costruito dal consorzio franco-tedesco Areva-Siemens, ed entrato in funzione con 12 anni ritardo, è triplicato, con pesanti strascichi giudiziari e richieste di risarcimenti danni a carico del Governo francese, azionista delle società fallite.

Non sta andando meglio per i due EPR di Hinkley Point in Inghilterra, costruiti da EdF Energy e iniziati nel 2016 con un costo previsto di 18 miliardi di sterline e già arrivati a 23 miliardi. Se ne prevede la messa in esercizio per il 2026.

Il prezzo di vendita dell’energia elettrica, fissato inizialmente a 92,50 £/MWh è già aumentato a 106 £/MWh. Da rilevare che il costo attuale dell’eolico offshore dei nuovi progetti è fissato a 50 £/MWh, meno della metà del costo dell’elettricità da nucleare. La grande domanda è: sempre che i tempi siano rispettati, quanto costerà il singolo MWh nel 2026?

Tra l’altro, come riporta Our World in Data il costo livellato dell’elettricità (LCOE) da fonte nucleare è l’unico ad essere aumentato nel decennio dal 2009 al 2019 (+26%).

Tutte le altre fonti hanno evidenziato un calo nel costo del singolo MWh prodotto, con il fotovoltaico che ha registrato il decremento più significativo, riducendosi di quasi 10 volte il 10 anni (grafico a destra)

Sull’altra sponda dell’Atlantico, le unità Vogtle 3 e 4 di Georgia Power, le uniche unità di generazione attualmente in costruzione negli USA, hanno annunciato ulteriori ritardi e aumenti dei prezzi.

Stime prudenti sui costi suggeriscono che i due impianti da 1.117 GW richiederanno almeno 30 miliardi di dollari per essere completati, inclusi 3 miliardi di dollari in costi finanziari e 27 miliardi di dollari in costi di costruzione.

Infine, in Slovacchia, Slovenske Elektrarne, di cui è azionista Enel, ha iniziato a costruire due nuove unità nel 2008. Dovevano essere finite nel 2012 e lo saranno nel 2022; dovevano costare 3,3 miliardi di euro e ne costeranno 6,2. E l’amministratore delegato di Enel lo considera un caso virtuoso.

Per non parlare dell’EPR costruito da EdF a Taishan in Cina, fermo da mesi per una perdita di gas radioattivi, tra intrighi diplomatici e ipotesi di difetti di costruzione.

Chi poi sollecita il ritorno al nucleare per una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti dei combustibili, forse ignora che oltre il 50% del fabbisogno mondiale di uranio per alimentare le centrali viene dal Kazakistan (41%) e dall’Uzbekistan (7%), paesi sotto stretto controllo della Russia, che produce un ulteriore 6% del fabbisogno mondiale di uranio.

Inoltre, come riporta Bloomberg, l’ondata di proteste in Kazakistan e la fulminea repressione con l’invio nel paese di truppe russe, ha già causato un ulteriore aumento dell’8% del prezzo dell’uranio, prezzo che già a settembre del 2021 era aumentato del 24%, in quanto molti investitori scommettono su una rinascita nucleare provocata dall’uscita di molti governi dai combustibili fossili.

Per quanto riguarda il presunto “nucleare pulito”, l’affermazione che gli impianti nucleari non emettono anidride carbonica è una delle più grandi falsità mai propagandate.

Sebbene un reattore nucleare non emetta direttamente CO2 durante il suo funzionamento, sia il ciclo del combustibile, dall’estrazione del minerale di uranio fino al confinamento del combustibile esausto, sia il ciclo delle centrali, dalla costruzione fino al loro smantellamento, sono responsabili, indirettamente, di ragguardevoli quantità di CO2.

In uno studio, intitolato “Nuclear Power – the energy balance”, commissionato dal parlamento europeo, sono state stimate le emissioni di CO2 equivalente nei 5 segmenti della filiera nucleare: il front end, la costruzione delle centrali, l’operation & maintenance, il backend e il decommissioning.

Gli autori (Storm & Smith) indicano un valore medio di 150 g/kWh di emissioni di CO2 per tutto il ciclo nucleare.

Le emissioni di CO2 delle filiere nucleari sono comunque molto inferiori a quelle dei cicli a carbone e a gas, che arrivano rispettivamente a 880 e 370 grammi di CO2 per kilowattora prodotto.

Storm & Smith, tuttavia, pongono il problema di cosa succederà quando il grado di concentrazione dell’uranio presente nella crosta terrestre diminuirà per via della diminuzione delle risorse disponibili a basso costo.

Infatti, man mano che la purezza del minerale diminuisce, occorrerà più energia fossile per estrarre e lavorare il minerale di uranio. Gli autori dello studio hanno calcolato che a una concentrazione di uranio (grade) tra lo 0,01% e lo 0,02%, le emissioni di CO2 generate da una centrale nucleare eguaglieranno le emissioni di un ciclo combinato a gas.

Includere il nucleare nella tassonomia è puro “greenwashing” e una potenziale truffa per gli investitori di “bond verdi” con il nucleare incorporato.

Tuttavia, per il Governo francese e soprattutto per EdF, la società fortemente indebitata che gestisce gli impianti nucleari, non solo in Francia sarà molto difficile e costoso reperire le ingenti risorse necessarie al rinnovamento e al mantenimento del parco reattori nazionale ormai piuttosto vecchio.

L’inserimento del nucleare nella tassonomia europea faciliterebbe il reperimento di risorse finanziarie sui mercati a tassi di interesse più accettabili. Questo è il motivo principale per cui la Francia, ma anche i paesi dell’est Europa che dispongono di impianti nucleari stanno premendo per inserire in nucleare nella tassonomia energetica europea.

Per quanto riguarda la sicurezza, infine, non vale la pena dilungarsi più di tanto: in un paese che dopo 20 anni non trova il coraggio di affrontare pubblicamente il problema del deposito nazionale delle scorie radioattive, con quale coraggio si vuole affrontare il tema della localizzazione delle nuove centrali nucleari?

Ben venga un ennesimo referendum: sarà la tomba definitiva dei nazional-popul-sovranisti!

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