Il Superbonus non è così inefficiente come sembrerebbe dalla “bocciatura” di Bankitalia

Gli stessi autori del documento lasciano uno spazio, non così trascurabile, per considerare il Superbonus, con tutti i suoi limiti, uno strumento efficace. Gli obiettivi e le possibili riforme di una misura che fa discutere.

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Superbonus poco verde. ‘Così i miliardi del Pnrr non aiutano l’ambiente’” è il titolo di un recente articolo de La Repubblica circa i risultati di uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia e riferito all’efficacia climatica degli interventi previsti appunto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La nostra stessa testata ha titolato: “Bankitalia boccia il Superbonus: costa troppo rispetto ai benefici ambientali”.

Il messaggio è che il gioco fiscale del 110% non varrebbe la candela energetica in termini di emissioni nocive evitate. In altre parole, troppa spesa per troppo pochi e troppo lenti vantaggi climatici, in base al cosiddetto “social cost of carbon” (SCC), cioè il costo sociale delle emissioni di anidride carbonica.

In realtà, una lettura più testuale e pragmatica dello studio ospitato dalla pubblicazione di Bankitalia, che non esprime necessariamente la posizione sul tema dell’istituto, non giustifica del tutto i giudizi negativi sul Superbonus.

Gli autori, Matteo Alpino, Luca Citino e Federica Zeni, lasciano uno spazio, non così trascurabile, per considerare il Superbonus, già così come è con tutti i suoi limiti, uno strumento comunque relativamente efficace.

Tutto dipende anche dalla lettura che si vuole fare dei dati contenuti nello studio.

Ché il Superbonus sia nato con delle pecche e che sia migliorabile si sapeva fin dall’inizio, ma, prima di accennare a come potrebbe essere ottimizzato, vediamo perché l’affresco dipinto dagli autori dello studio non sia da percepire a tinte così fosche.

La critica principale contenuta nelle elaborazioni dello studio è che il Superbonus si ripagherebbe prima del 2100 solo in un caso, cioè nel 2067, ma ipotizzando di applicare un valore SSC molto alto a un tasso di sconto – che ci permette di calcolare il valore attuale dei danni futuri delle emissioni – piuttosto basso, e cioè uguale o inferiore al 2%.

Quale tasso di sconto?

Con tassi di sconto più alti, che gli autori calcolano fino al 5%, o valori SSC più bassi, il punto dipareggio” fra costi economici e benefici climatici del Superbonus si avrebbe solo dopo il 2100, cioè in tempi inaccettabilmente lunghi.

Leggendo però lo studio, sono gli stessi ricercatori a “validare” indirettamente, almeno in parte, lo scenario più ottimistico sulla base del tasso di sconto.

“Riteniamo che i tassi di sconto inferiori al 3% siano probabilmente appropriati nel contesto della mitigazione dei cambiamenti climatici, sia da un punto di vista normativo che positivo… anche in un mondo dove c’è incertezza sul tasso più appropriato, l’attualizzazione dei danni futuri, a tutti i possibili tassi, risulterà in un tasso certamente destinato a diminuire nel tempo e a convergere verso quello più basso”,  cioè appunto verso un rateo uguale o inferiore al 2%.

Secondo gli stessi autori dello studio, poi, “il fatto che i costi di investimento per il Pnrr non siano pagati sull’unghia, in anticipo, ma finanziati attraverso un debito a lungo termine, aiuta a colmare il divario tra costi e benefici”, anche a tassi di sconto più alti.

Costo sociale del carbonio

In merito all’altro fattore della moltiplicazione, cioè il valore economico presente assegnato ai danni sociali futuri di ogni tonnellata aggiuntiva di CO2, bisognerebbe fare delle precisazioni.

Gli autori hanno fatto un ottimo lavoro, considerando il panorama completo dei valori in euro dei danni sociali così come sono stati stimati dal Gruppo di lavoro inter-agenzie degli Usa (IWG) e dall’Agenzia tedesca per l’ambiente (UBA). Queste due agenzie forniscono le stime ufficiali utilizzate nelle politiche federali dalle rispettive autorità e sono usati in questo tipo di studi dai centri di ricerca.

Prendendo la parte mediana dei valori considerati nello studio, gli SCC statunitensi variano da 13 a 133 euro per tonnellata di CO2, con un valore medio di 46 dollari a un tasso di sconto del 3%.

Vale la pena notare che quelli americani sono valori “politicamente accettabili”, formatisi in un contesto estremamente conflittuale. Sono cioè il risultato di un compromesso più attento a non urtare suscettibilità politiche che non a catturare in maniera accurata e realistica i costi climatici e ambientali.

Fanno probabilmente più testo, quanto a realismo, i valori stimati dall’UBA tedesca, che variano da 197 euro, con un tasso di sconto uguale o inferiore al 3%, a 682 euro, con un tasso di sconto uguale o inferiore al 2%.

Sempre sulla base di quanto già accennato circa il tasso di sconto (tasso verosimilmente destinato a convergere verso i valori più bassi), i dati dello studio sembrano dare validità non solo teorica, ma anche piuttosto concreta, allo scenario di un punto di pareggio del Superbonus nel 2067.

Ciò in base, appunto, a un tasso di sconto uguale o inferiore al 2% e un corrispondente costo sociale del carbonio di 682 euro alla tonnellata, senza dover scomodare uno scenario che invece non si materializzerà mai.

Tale costo stimato dall’UBA, che può sembrare alto rispetto ai livelli attuali, incorpora anche un peso maggiore ai danni nei Paesi più poveri, che in media sono più esposti ai cambiamenti climatici e che ne soffrono di più le conseguenze, anche economiche.

Pareggio solo nel 2067?

Si obbietterà che, anche mettendosi gli occhiali rosa dello scenario più ottimistico, il 2067 è comunque troppo lontano e che quindi il gioco del Superbonus continui a non valere la candela.

Vale allora la pena notare altre precisazioni contenute nello studio. In primis che la sua analisi mira a cogliere esclusivamente i benefici climatici del Superbonus.

Sappiamo però che l’obiettivo di questo strumento non è solo climatico, ma anche economico e sociale, in termini di ripresa delle attività produttive dopo la pandemia e di equità sociale ai fini della riduzione del divario nell’accesso a misure di efficienza energetica e generazione da fonti rinnovabili.

Il Superbonus è cioè un tavolino a tre gambe: se si tiene conto solo della gamba climatica potrebbe non stare in piedi o traballare.

Ma visto che la transizione ecologica non è solo una questione di carattere climatico-ambientale, ma anche economico e sociale, potrebbe non essere così rilevante che la componente climatica di questa misura sia lenta o a lunghissimo termine.

Non sarà una situazione asetticamente perfetta dal punto di vista del rapporto costi/benefici, ma la perfezione è spesso nemica del bene. E poi la transizione non potrà avvenire senza coinvolgere e beneficiare le fasce meno privilegiate, in Italia come negli altri paesi. E ciò anche a costo di spese maggiori e non sempre rispondenti ad un teorico optimum climatico.

“In breve, la nostra analisi suggerisce che il Superbonus potrebbe valere la pena di essere perseguito nella sua forma attuale soltanto se si tiene conto dei sostanziali benefici non climatici derivanti dalla misura”, dicono gli stessi autori dello studio.

In effetti è proprio in questo contesto allargato che bisogna considerare il Superbonus, per non cadere in valutazioni errate.

Non a caso, ci sono almeno tre precedenti studi che, guardando agli aspetti economici del Superbonus, ne dettagliano gli effetti positivi sulla crescita e i conti pubblici (vedi Superbonus, i conti in tasca allo Stato non giustificano la sua fine).

Edilizia, un settore difficile da decarbonizzare

Quello dell’edilizia non è considerato uno dei settori più difficili da decarbonizzare. Tale etichetta è riservata a comparti come la siderurgia, la chimica, il trasporto aereo o navale, settori che attendono ancora soluzioni pienamente verdi e convenienti.

Per gli edifici disponiamo già di tutte le tecnologie adatte. Il problema è che sono socialmente, proceduralmente, logisticamente, architettonicamente ed economicamente difficili da applicare, perché richiedono un’enorme opera di retrofitting o di sostituzione dello stock abitativo esistente, cosa molto complessa da attuare senza stravolgere la vita e le tasche di milioni di persone.

Sarebbe allora più sensato mettere gli edifici nella categoria dei settori difficili da decarbonizzare e mirare a un loro più completo efficientamento energetico solo nel lungo termine, come si fa per le acciaierie o le fabbriche di fertilizzanti. Tanto per fare un esempio, il settore siderurgico europeo mira a ridurre le proprie emissioni “solo” dell’80-95% entro il 2050, con l’abbattimento della quota rimanente che potrebbe impiegare ancora molti anni, anche perché almeno in parte legato a tecnologie dimostratisi finora anti-economiche e inefficaci come la cattura e lo stoccaggio del carbonio.

Sulla falsa riga della siderurgia, mutatis mutandi, è forse il caso di risettare le nostre aspettative collettive di rapidità della decarbonizzazione degli edifici. Non sarebbe cioè tanto il Superbonus a essere inaccettabilmente lento nel favorire la riduzione delle emissioni climalteranti nel settore immobiliare, quanto la decarbonizzazione degli edifici a essere oggettivamente estremamente difficile da realizzare, con qualunque misura economica, almeno nel contesto di una democrazia liberale occidentale come quella italiana.

E poiché un più lungo termine della decarbonizzazione degli edifici implicherebbe un ritardo nell’azzeramento netto delle emissioni entro il 2050, così come è definito oggi, bisognerà trovare il modo di accelerare ulteriormente in altri settori, per pareggiare i conti.

Facciamo una detrazione al 40%?

Gli autori affermano che rimane aperta una questione importante: sarebbe possibile raggiungere la stessa riduzione delle emissioni di CO2 con una detrazione molto più bassa, ipotizzata ad esempio al 40%?

Una simile detrazione renderebbe il bonus molto meno oneroso (5 miliardi) e quindi più efficace, per quanto concerne i costi-benefici ambientali.

Questa ipotesi sconta però un difetto tipico di molti economisti, e cioè la tendenza a pensare per principi astratti e categorizzazioni razionali che solo recentemente un approccio “comportamentale” alla materia sta tentando di correggere per rendere l’analisi economica più attinente alla realtà.

La risposta al quesito sulla riduzione del bonus dal 110 al 40%, a parità di tutte le altre condizioni, è: “no”.

I proprietari di casa non si accollerebbero il restante 60% dei costi, come gli autori ipotizzano, con una buona dose di temerarietà. Chiunque abbia mai presenziato a una riunione di condominio sa quanto sia difficile convincere il Sig. Ugo e la Sig.ra Maria ad approvare qualunque spesa, anche se alla fine non si tira fuori di tasca neanche un centesimo. Spesso è difficile smuovere la montagna dell’inerzia di chi, di pancia o di testa, preferisce non fare niente.

La fissazione dell’aliquota al 110%, che diventa circa il 100% dopo lo sconto in fattura o la cessione del credito, ha poi l’obiettivo dell’equità sociale, cioè di consentire anche a chi finora non poteva permetterselo, o non aveva capienza fiscale, di fare questo tipo di interventi.

Se neanche le detrazioni del 50% per le ristrutturazioni edilizie o del 65% per altri interventi di efficientamento energetico o del 90% per le facciate hanno generato un rinnovamento a tappeto dello stock edilizio, non si vede come un’ulteriore riduzione del beneficio al 40% possa ottenere risultati significativi.

Quali riforme al Superbonus?

Il Superbonus, così come è strutturato oggi, non è quindi così inefficiente.

Gli stessi autori dello studio pubblicato da Bankitalia invitano a “non trarre conclusioni affrettate sul piano italiano basandosi solo sulla nostra analisi”. Ciò nonostante il Superbonus è sicuramente migliorabile.

Se si dovesse fare una raccomandazione al nuovo governo che prenderà in carico eventuali riforme del Superbonus, la principale sarebbe quella di elevare il grado di ambizione climatica di questo strumento, che è poi l’esigenza di fondo espressa dallo studio di Bankitalia.

Più che ridurre l’aliquota di detrazione fiscale, che potrebbe anche rimanere al 110%, appunto per motivi di equità sociale, bisognerebbe aumentare il numero di classi energetiche da migliorare per accedere al beneficio. Oppure legare in maniera variabile l’entità dell’incentivo al grado di miglioramento dell’efficienza energetica: più si migliora, più si può detrarre.

Per gli edifici con le classi energetiche più basse, bisognerebbe migliorare l’efficienza di almeno tre o quattro classi, introducendo un sistema a scalare che preveda un salto di due classi o una sola esclusivamente per gli edifici già virtuosi con un’efficienza dalla A in su e che non riuscirebbero altrimenti a migliorare le loro prestazioni.

Aiuterebbe molto facilitare definitivamente la cessione del credito, in modo da non bloccare imprese e banche, cedenti e cessionari in una situazione di paralisi, o di crisi di liquidità che contraddice l’obiettivo e lo spirito dell’intero meccanismo.

Per il resto, sparare sul Superbonus potrebbe servire solo ad affossare una misura che perfino l’Agenzia internazionale dell’energia ha lodato e definito efficace (vedi “Efficienza energetica in edilizia, il Superbonus italiano è un esempio per molti paesi“).

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