Facciamo un’ipotesi. Anno 2024: in Italia quasi la metà dei tetti è coperto da pannelli fotovoltaici, durante l’anno il 73% dell’elettricità arriva da sole e vento con lunghi periodi in cui queste due fonti coprono da sole il 100% della domanda.
E ancora. Le zone industriali del paese sono punteggiate di megabatterie che consentono di spostare l’energia rinnovabile nelle ore di minor a quelle di massimo consumo e già si vedono i primi cantieri degli elettrolizzatori e dei serbatoi di idrogeno, destinati a immagazzinare per l’inverno l’eccesso estivo di energia solare. L’obiettivo 100% rinnovabili è ormai a portata di mano e arriverà prima che finisca il decennio.
Forse volevo dire 2034? No, quanto descritto è una situazione presente che sarebbe stata teoricamente fattibile se avessimo fatto una politica coerente di sostegno alle rinnovabili nei dieci anni precedenti, senza ascoltare quelle “sirene interessate” che frenavano questo sviluppo.
Lo fa pensare il caso di un paese dall’altra parte del globo, che ha risorse di sole e vento quasi comparabili al nostro, con reddito e industrializzazione simile. Ed è anche più svantaggiato di noi per la possibilità di stoccaggio, non avendo risorse idroelettriche.
Parliamo dell’Australia Meridionale (AM) o South Australia, uno degli stati federati dell’Australia situato lungo la costa sud, con capitale Adelaide.
Nel 2007 l’AM, come noi, non aveva quasi impianti solari e solo pochi gigawatt di turbine eoliche: le rinnovabili producevano appena il 5% dell’elettricità totale.
Nel 2013, quando in Italia il governo Renzi decise con scarsissima lungimiranza di interrompere gli incentivi alle rinnovabili, l’AM aveva raggiunto già il 35% di elettricità fornita da solare ed eolico, una quota simile a quella attuale da noi.
Lo Stato però non si fermò, arrivando al 50% nel 2020 e al 73% di oggi, con un contributo del 25% proveniente dalla fonte solare.
È però un caso unico in Australia, dove le potenti lobby dell’estrazione dei fossili hanno avuto sempre molto ascolto dal governo federale di Canberra, quasi sempre in mano al partito liberale di centrodestra per tutto quel periodo.
Il Nuovo Galles del Sud, il più popoloso Stato australiano, con la sua capitale Sydney, per esempio, oggi si ferma al 31% di elettricità da rinnovabile.
“La differenza è che il South Australia nel XXI secolo è sempre rimasto nelle mani del partito Laburista, che ha visto nelle rinnovabili un modo non solo per salvaguardare clima e ambiente, ma anche per ridurre gli alti prezzi dell’elettricità dovuti ai monopoli nella produzione elettrica e alla costosa manutenzione delle lunghissime linee elettriche necessarie per collegare gli sparsi centri abitati, peraltro molto esposte a ogni evento meteo estremo”, ha spiegato su New Scientist la giornalista Alece Klein, in un articolo che descrive il “miracolo” dello Stato australiano.
Creare tanti impianti solari sui tetti delle case e in aree prossime alle città avrebbe risolto entrambi i problemi, e così dal 2002 l’AM ha deciso di incentivare le rinnovabili, fino ad avere oggi 24 grandi impianti eolici per 6 GW di potenza, e 3,2 GW di fotovoltaico, in gran parte residenziale, grazie alla versione locale del Conto Energia; una feed in tariff partita dal 2008, per essere poi sostituita negli ultimi anni da bonus in conto capitale meno generosi.
Sebbene stiamo parlando di un territorio tre volte più grande dell’Italia e con una popolazione di 1,8 milioni di abitanti, è un percorso per certi versi che assomiglia al nostro. E in teoria fa capire come avrebbe potuto essere diversa la situazione italiana se la politica di sostegno alle rinnovabili fosse continuata con coerenza fino ad oggi.
“In effetti fu un successo travolgente, la gente era entusiasta del potersi autoprodurre l’elettricità, ridurre le bollette e avere anche un premio dal governo. E così oggi il 40% delle abitazioni del South Australia sono dotate di impianti fotovoltaici e sempre di più anche di batterie. La gente è molto soddisfatta della politica energetica locale, tanto che non ci sono state opposizioni di rilievo all’apertura delle grandi centrali eoliche, al contrario di quanto accade negli altri Stati australiani, dove ancora girano fake news sulla loro pericolosità per la salute”, ricorda Klein.
Nel settembre del 2016, però, gli abitanti dell’AM hanno imparato che non basta far crescere la potenza di energia rinnovabile per risolvere ogni problema.
Una tempesta tranciò tre delle quattro principali linee elettriche con cui lo Stato scambia energia con i vicini, indispensabili per il bilanciamento della rete, e il sistema energetico, basato per quasi la metà su fonti rinnovabili, non resse. Tutto l’AM si ritrovò al buio, e ci vollero molti giorni per far tornare la luce in ogni angolo dello Stato.
“Immediatamente gli Stati ‘carboniferi’ e il governo Federale si sono messi a dipingere il governo del South Australia come un branco di ambientalisti incoscienti che facevano esperimenti sulla pelle della popolazione, nonostante gli esperti spiegassero che la situazione sarebbe stata simile anche se lo Stato fosse andato a carbone, visti i gravi danni alla rete”, ricorda la giornalista.
Ma il governo locale non si fece impressionare e invece di tornare ai fossili, ha rilanciato la sua scelta, finanziando incentivi per la sua seconda fase della transizione: la costruzione di grandi sistemi di accumulo centralizzati.
Ed è allora che sono cominciate ad apparire le megabatterie di cui abbiamo spesso parlato su questo sito.
La prima fu nel 2017 quella di Tesla, da 194 MWh, realizzata dalla francese Neon, dopo la famosa scommessa di Elon Musk che l’avrebbe messa su in meno di 100 giorni.
Sappiamo che Musk quella scommessa l’ha vinta, ma è meno noto è il fatto che in seguito Tesla ha deciso di regalare a 4000 case popolari del South Australia sistemi fotovoltaici con batterie, riprendendosi poi l’investimento con la sola vendita dell’energia alla rete, usando le migliaia di impianti distribuiti come una sorta di centrale elettrica programmabile virtuale, coordinata via software.
Un progetto che ha anche dimostrato come, con un po’ di inventiva, si possa garantire l’accesso all’autoproduzione di energia e al risparmio sulle bollette, anche a utenti che non hanno le risorse finanziarie per provvedervi da soli.
Oggi sono in funzione 0,5 GW di storage (South Australian Electricity Report, nov23 – pdf) in funzione, con altri 7 GW in progetto, fra cui uno da 470 MWh già in costruzione: dal 2017, nonostante altre forti tempeste e altri gravi danni alle linee elettriche, non ci sono più stati blackout. I sistemi di accumulo energetico e la ampia diffusione di solare sui tetti, che ha alleggerito il carico sulla rete, li hanno sempre evitati.
Ma non è finita così. Il South Australia dipende ancora troppo per il bilanciamento della rete dal gas, diventato molto costoso in questi ultimi anni, e dall’import. Per questo il governo ha deciso di finanziare con 600 milioni di AU$ il primo impianto di produzione e stoccaggio stagionale di idrogeno alimentato a rinnovabili, associato a una centrale elettrica che userà quel gas.
Entrerà in funzione entro il 2025, e, se funzionerà come sperato, entro il 2030 il South Australia sarà la prima economia avanzata del mondo a fare del tutto a meno dei fossili per la produzione della sua energia elettrica.
Progressi rapidi e applicazione di sistemi innovativi in AM che ci portano tuttavia ad amare considerazioni se li confrontiamo con il trascinamento dei piedi verso la transizione energetica a cui assistiamo dal 2011 in Italia, che si è un po’ risvegliata solo con la guerra in Ucraina, ma potrebbe riaddormentarsi con il calo dei prezzi del gas (Le urgenti scelte energetiche-climatiche e quel vento contrario).
Certo, il South Australia ha pochi abitanti, tanto sole e vento ed enormi spazi (una superficie di quasi un milione di kmq), e quindi la sua esperienza non può essere replicata tal quale ovunque. Ma questo caso potrebbe anche farci immaginare, facendo una debita proporzione, che l’Italia avesse già installato 200 GW di eolico, 100 GW di solare e 16 GWh di accumuli a batteria.
“Il South Australia dovrebbe essere un esempio per tutto il mondo: con una politica paziente e coerente sul medio periodo, con il coinvolgimento della popolazione e con l’applicazione delle tecnologie più avanzate e innovative, una veloce transizione energetica basata solo sulle rinnovabili non è un’utopia nelle ricche economie industriali, e neanche un sacrificio, visto che, oltre a rendere l’aria più pulita e il clima più stabile, va ad abbassare il costo delle bollette e a ridurre la povertà energetica”, conclude Klein.