L’Europa potrà contare su tante nuove fabbriche di tecnologie green, come pannelli solari, turbine eoliche, batterie e pompe di calore?
È il grande interrogativo intorno al Net Zero Industry Act (Nzia), la proposta di regolamento su cui Parlamento e Consiglio Ue hanno raggiunto ieri, martedì 6 febbraio, un accordo provvisorio al termine dei loro negoziati. Il Consiglio, ricordiamo, aveva approvato la sua posizione sul testo a metà dicembre, quasi un mese dopo il Parlamento; ora entrambe le istituzioni dovranno adottare formalmente il provvedimento.
Obiettivo dello Nzia è aumentare la capacità produttiva europea in una serie di tecnologie pulite considerate strategiche, tra cui le varie fonti rinnovabili, l’accumulo energetico, il nucleare, gli elettrolizzatori per l’idrogeno verde, gli impianti per la cattura e lo stoccaggio della CO2. Tra le novità principali, le aste per le rinnovabili dovranno basarsi in parte su criteri di aggiudicazione diversi dal prezzo più basso e sono previste autorizzazioni accelerate per realizzare nuovi stabilimenti produttivi.
Proprio l’inclusione di nucleare e stoccaggio della CO2 ha suscitato molte critiche dal mondo ambientalista, preoccupato che si disperdano risorse su progetti molto costosi e con lunghissimi tempi di realizzazione, anziché focalizzare gli investimenti sulle energie rinnovabili.
Il Net Zero Industry Act vuole essere uno “scudo” per tutelare le imprese Ue dalla crescente concorrenza asiatica e soprattutto cinese, anche se non ha la potenza finanziaria dell’Inflation Reduction Act americano, che con i suoi 369 miliardi di $ e un ampio ricorso ai crediti fiscali ha tutt’altra ambizione.
Non a caso, diverse aziende stanno riducendo gli investimenti europei, ad esempio nel fotovoltaico, per delocalizzare negli Stati Uniti (un esempio recente è la strategia della svizzera Meyer Burger).
Il principale argine innalzato dallo Nzia contro l’eccessiva dipendenza dalle importazioni, è l’obiettivo, non vincolante, di produrre in casa almeno il 40% del fabbisogno annuale europeo delle tecnologie net zero, entro il 2030, oltre a catturare il 15% del valore del mercato globale riferito alle medesime tecnologie, evidenzia una nota del Parlamento Ue.
Questa spinta al Made in Europe dovrà però essere accompagnata da ingenti investimenti in nuovi stabilimenti produttivi, le cosiddette gigafactory di batterie, pale eoliche e così via.
E questo è l’aspetto più problematico dello Nzia, che non prevede specifiche nuove misure di finanziamento; si parla della possibilità di usare parte dei proventi ETS (Emissions Trading Scheme, il mercato Ue della CO2), oltre alla piattaforma STEP (Strategic Technologies for Europe Platform).
Sono poi previste procedure accelerate per autorizzare la costruzione o il potenziamento di capacità produttiva nelle tecnologie net zero: massimo 18 mesi per i progetti sopra 1 GW e 12 mesi per quelli più piccoli (fino a 1 GW). Si punta, inoltre, a sviluppare le “net zero acceleration valleys”, poli industriali che aggregano diverse aziende specializzate in uno o più settori tra quelli supportati dal regolamento.
Un punto importante riguarda i criteri diversi dal prezzo, che dovranno essere inclusi in circa un terzo delle future aste per le rinnovabili (per almeno il 30% della capacità messa in gara ogni anno in ciascuno Stato membro). I criteri non di prezzo puntano a favorire le produzioni europee rispetto a quelle a basso costo di Paesi extra Ue, premiando elementi come l’innovazione tecnologica, la tutela ambientale, l’integrazione con le reti elettriche, la resilienza delle catene di approvvigionamento.
Sono criteri chiesti con urgenza dalle associazioni europee del fotovoltaico, che sperano così di dare un nuovo impulso alle produzioni locali di celle, moduli e altri componenti FV in risposta all’invasione di pannelli cinesi sottocosto (si veda Dai dazi alle “aste di resilienza”, quali soluzioni per il solare Ue schiacciato dalla Cina?).
Anche nelle gare pubbliche per l’acquisto di beni e servizi correlati alle tecnologie net zero, si dovranno usare criteri ambientali e di resilienza. In particolare, una fornitura sarà considerata “non resiliente” se un singolo Paese extra Ue rappresenta oltre il 50% dell’offerta di quella specifica tecnologia, all’interno dell’Ue.