La tecnologia da sola non ci salverà

Le tecnologie green ci potranno salvare dalla crisi climatica oppure servirà chiudere l’era degli sprechi? Qualche scomoda risposta nello studio di una ricercatrice olandese in scienze ambientali ed ecologia industriale.

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Fra chi si interessa, e auspica, una transizione energetica, che possa proteggere l’umanità dal cambiamento climatico, dall’inquinamento e dai ricatti geopolitici dei petrolieri, si possono distinguere due atteggiamenti dalle sfumature più o meno estremiste: i tecnofili e i politofili, per così dire.

Le posizioni in campo

I primi sono convinti che a rimediare ai pasticci fatti nei secoli scorsi bruciando gas, petrolio e carbone, penserà la tecnologia, sostituendo ogni dispositivo alimentato con i vecchi tipi di energia con un altro basato sulle rinnovabili: via le auto con motore a scoppio e dentro quelle elettriche, via le centrali a gas o carbone e spazio a enormi centrali eoliche o fotovoltaiche servite da avveniristici sistemi di accumulo, via il cherosene per aerei e dentro i biocarburanti o addirittura carburanti di sintesi da rinnovabili, via le caldaie a fonti fossili e ampia diffusione a pompe di calore e isolamento termico, e via sostituendo.

In pratica per i tecnofili il futuro sarà più o meno come l’attuale, senza nessun particolare sacrificio nei consumi o nelle comodità, poiché la produzione di beni e servizi non sarà più causa di emissioni. E perfino se continuassero a essere in eccesso in atmosfera, ecco un’altra bella tecnologia a salvarci: l’assorbimento dall’aria della CO2 e il suo confinamento da qualche parte.

I politofili, a sentire questi discorsi scuotono la testa con commiserazione: senza un cambiamento negli stili di vita, pensano, la tecnologia non potrà mai essere sufficiente.

Secondo loro il bug nel sistema non sono solo i combustibili fossili, ma il consumismo indotto dal capitalismo moderno: non essere mai soddisfatti di quello che si ha, a causa di una continua creazione di nuovi bisogni da parte del sistema economico/mediatico, che ci fa buttare via oggetti ancora funzionanti, per avere quelli più nuovi e alla moda.

Questo consumo vorticoso vuol dire estrarre sempre più materiali, con aumenti esponenziali di rifiuti che nessun riciclo riuscirà mai a recuperare completamente e con consumi energetici in continua crescita.

Per i politofili, anche mettendo le rinnovabili nell’equazione, non sarà mai possibile soddisfare questa crescita insensata senza rovinare l’ecosistema planetario.

Per questo motivo, concludono, la tecnologia può essere utile a darci un po’ più tempo, ma prima di tutto deve tornare in campo la politica per convincere con ogni mezzo i cittadini che il consumismo è il male, che bisogna trovare in noi le ragioni della soddisfazione esistenziale al di fuori dell’acquisto compulsivo: in pratica bisognerà riscoprire il senso del limite e una sobria moderazione, riscoprendo il concetto di “sufficienza”, anziché solo di efficienza.

A chi dare ragione?

A vedere dall’esterno questo interessante dibattito non si sa proprio a chi dare ragione. È vero che sembra difficile che la tecnologia possa arrivare a consentire il moto perpetuo del consumo e di uno spreco crescenti in un pianeta fisicamente limitato (ci sono tecnofili estremisti che vorrebbero aggirare i limiti terrestri estraendo persino risorse anche da altri pianeti).

Ma, d’altra parte, sembra ancora più difficile che si possano convincere 8 miliardi di persone, già riottose a mettersi d’accordo su questioni banali, a diventare dei morigerati frati trappisti.

Sarebbe una predica ancora più difficile da fare a quei 6 miliardi di persone che del benessere hanno per ora ricevuto solo le briciole e che vedono gli altri due miliardi vivere molto meglio.

Tanto più se si vive in sistemi democratici: in tempi di social, il partito che predica austerità e moderazione, rischia di essere “poco sexy” e venire così facilmente travolto alle urne da chi invece ci dice che sono tutte sciocchezze da “cocomeri”, gente verde-ambiente fuori, ma rosso-comunista dentro. Donald Trump docet, ma non è che in Europa stiamo molto meglio.

Uno studio affronta la questione “tecnologie vs sobrietà

Per orientarci su questo tema tanto spinoso la soluzione migliore sarebbe far dirimere la questione alla scienza: la tecnologia, da sola, ci può salvare? O servirà anche porre fine agli sprechi consumistici?

A rispondere alla domanda è stata la dottoranda in ecologia industriale Stephanie Cap, che ha pubblicato sulla rivista Sustainable Production and Consumption una ricerca proprio su questo tema, dal titolo (In)Sufficiency of industrial decarbonization to reduce household carbon footprints to 1.5°C-compatible levels, che si focalizza soprattutto sui paesi europei, con qualche comparazione esterna alla Ue.

“Purtroppo, la risposta è molto chiara – spiega Cap – se i Paesi europei si affideranno esclusivamente ai progressi tecnologici, non saranno in grado di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Anche le famiglie, che essendo i consumatori finali influenzano gran parte delle emissioni derivanti da tutti gli altri settori dell’economia, dovranno cambiare il loro stile di vita”.

Una “scomoda verità” che non discende però da semplici opinioni, ma da alcuni calcoli.

La ricercatrice ha costruito uno scenario 2015-2050 dell’economia europea e di alcuni grandi paesi del mondo, in cui ha immaginato che tutta la riduzione delle emissioni causata dai consumi delle famiglie passi solo attraverso l’installazione di nuove tecnologie a basse emissioni, tenendo anche conto dei loro probabili miglioramenti in termini di efficienza e costo.

Al tempo stesso ha applicato al suo scenario la variabile di un aumento della popolazione, dei consumi e delle relative richieste di energia, alimenti e materiali, come indicato dai modelli economici più consolidati e validi.

Infine, ha confrontato le emissioni annue delle famiglie in questi paesi con lo scenario AR6 dell’Ipcc, quello che ottimisticamente richiede che al 2050 si riescano a tagliare così tanto le emissioni da riuscire a restare sotto a un aumento di temperatura di 1,5 °C rispetto al XIX secolo (un mutamento climatico certamente dannoso, ma con buone possibilità di essere ancora gestibile).

“I risultati mostrano che se ci baseremo solo sulla tecnologia entro il 2030 solo le famiglie di tre Paesi dell’Ue saranno in grado di raggiungere l’obiettivo di riduzioni previsto dall’AR6”, dice Cap. “E al 2050 nessuno dei 27 Stati membri Ue sarà in grado di limitare le emissioni di gas serra in linea con l’obiettivo”.

Dunque, le sue analisi mostrano che senza cambiare il nostro attuale stile di vita, entro il 2050 ci sarà un overshoot” annuale di 3,1 tonnellate di CO2 per ogni famiglia europea

Per esempio, le famiglie tedesche fra 2015, 2030 e 2050, passerebbero da 10 a 5 a 3 ton/CO2 annue, mentre il target sarebbe 2,5 al 2030 e 0,5 al 2050. E l’Italia non farebbe meglio.

Gli unici “promossi” al 2030 sarebbero le famiglie di Croazia, Slovenia e Bulgaria, ma neanche loro riuscirebbero comunque ad arrivare all’obbiettivo del 2030.

Unica, scarsa, consolazione, è che l’Ue farebbe molto meglio di altri giganti mondiali, come Usa o Russia: i primi, partendo da emissioni altissime, farebbero certo progressi, ma resterebbero molto lontani dal target richiesto; i secondi neanche ci proverebbero ad avvicinarvisi.

Più vicine ai target di quelle europee, invece, sarebbero le famiglie cinesi che partono già da emissioni più basse (le enormi emissioni cinesi dipendono soprattutto dall’industria dell’export), ma anche loro non riuscirebbero a raggiungerli.

Il ruolo della politica

“È importante che la politica, attraverso leggi o incentivi, incoraggi anche le famiglie a ridurre le proprie emissioni, puntando su cambiamento e limitazione dei consumi”, spiega la dottoranda. “A questo proposito abbiamo anche evidenziato quali aree siano le fonti maggiori di CO2 nelle famiglie, per capire dove concentrare gli sforzi di riduzione”.

La più importante e difficile da affrontare fra queste è l’uso diretto di energia, come per la climatizzazione, che infatti passerà dal 19% delle emissioni del 2015 al 43% di quelle nel 2050, anche per la riduzione di peso delle altre fonti. Seguono il cibo (al 17% nel 2050), l’elettricità (16%) e i trasporti (11%).

“In tutti questi settori si dovrà convincere le persone a tagliare drasticamente le proprie emissioni anche attraverso modalità ‘non tecnologiche’, come, per esempio, viaggiare meno in aereo o passare a una dieta più vegetariana”, conclude Cap.

Insomma, sembra che alla fine i politofili abbiano ragione: la tecnologia da sola non ce la può fare a portarci in un mondo in cui le emissioni diventino così basse da evitare uno sconvolgimento climatico (e guerre per il petrolio o il gas).

Quindi, oltre a fare ogni sforzo per migliorare le tecnologie, è tempo di cominciare a riunire filosofi, sociologi, politologi ed esperti di scienze della comunicazione, per organizzare campagne di convincimento dei cittadini del globo che “moderazione è sexy” e “consumismo è out”, accoppiandola ovviamente anche con una equa redistribuzione delle risorse, per evitare che i sacrifici, tanto per cambiare, comportino che chi oggi è povero e vive male, resti tale per sempre.

Come direbbe il generale de Gaulle, “Vasto programma…”.

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