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Quanto stress idrico in meno se l’energia fosse tutta rinnovabile

Uno studio dell’università finlandese di Lappeenranta mostra come ridurre il consumo dell’acqua per produrre energia grazie a un mix elettrico fondato sulle fonti rinnovabili.

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Un mix energetico al 100% di rinnovabili avrebbe un enorme vantaggio spesso trascurato rispetto a quelli più noti quello di tagliare le emissioni di CO2: la riduzione dei consumi idrici.

Lo stretto collegamento tra l’uso dell’acqua e la produzione di energia, è al centro di un nuovo studio dell’università tecnologica finlandese di Lappeenranta (LUT), dove tra gli autori troviamo uno dei massimi teorici e sostenitori della possibilità di realizzare un sistema economico basato esclusivamente sulle energie a zero emissioni inquinanti (e senza nucleare), Christian Breyer.

Il principale risultato della ricerca, pubblicata su Nature Energy con il titolo Global scenarios for significant water use reduction in thermal power plants based on cooling water demand estimation using satellite imagery”, è che la transizione verso un mix elettrico al 100% di fonti rinnovabili al 2050 farebbe diminuire notevolmente il consumo idrico degli impianti termoelettrici convenzionali, fino al 97-98% in meno secondo le stime dei ricercatori, in confronto al livello “base” del 2015.

Lo studio ha esaminato le caratteristiche di 13.863 impianti termici in tutto il mondo, il 95% del totale in esercizio nei diversi paesi, grazie alle immagini satellitari; dopo aver identificato la posizione geografica di ciascun impianto e la tecnologia di raffreddamento impiegata, i ricercatori hanno stimato il potenziale impatto delle unità di produzione energetica sulle risorse idriche (si parla di “water footprint”).

Gli autori hanno anche esaminato più in dettaglio i potenziali impatti della cosiddetta “impronta idrica” su 354 fiumi, considerando molteplici fattori, tra cui la domanda attuale/futura dell’acqua utilizzata nelle centrali su differenti scale di distribuzione sul territorio: globale, regionale, locale.

D’altronde, spiega Breyer in una nota divulgativa (traduzione nostra dall’inglese, con neretti), “la transizione energetica verso la generazione elettrica ad alto contenuto di rinnovabili porta a sistemi energetici principalmente basati sull’eolico e sul fotovoltaico, sostituendo gli impianti termici esistenti”.

Questo, prosegue Breyer, “riduce drasticamente la domanda dell’acqua di raffreddamento da parte delle centrali termoelettriche, domanda che ha un forte impatto sul prelievo e il consumo dell’acqua dai fiumi […]”.

In sostanza, secondo Breyer e i suoi colleghi, l’eliminazione delle fonti fossili a favore delle rinnovabili può risolvere il nesso acqua-energia a livello globale.

Diversi studi recenti si sono concentrati sui problemi in cui possono incorrere le centrali a gas e carbone, oltre che i reattori nucleari, per la scarsità dell’acqua e l’incremento della sua temperatura, rendendo sempre più difficile il suo utilizzo nei circuiti di raffreddamento.

Ricordiamo, ad esempio, che nelle ondate di calore estivo degli ultimi anni, in più occasioni, parecchi impianti nucleari, a gas e carbone, sono stati temporaneamente chiusi o “messi al minimo” soprattutto in Francia e Germania ma anche in Spagna, Gran Bretagna e altri paesi, a causa di un elevato stress idrico.

Il problema, infatti, è che tali impianti utilizzano l’acqua estratta da fiumi, laghi o dal mare, acqua che poi viene nuovamente scaricata nell’ambiente da cui era stata prelevata, a una temperatura che però deve essere mantenuta entro determinate soglie per garantire la sopravvivenza di fauna e flora.

Altrimenti, c’è il rischio di danneggiare interi ecosistemi fluviali.

L’uso eccessivo dell’acqua per l’industria dei combustibili fossili riguarda anche il fracking, la “fratturazione” degli scisti per estrarre gas e petrolio dai giacimenti non convenzionali.

Il fracking, ricordiamo, consiste nel frammentare e sfaldare gli scisti grazie a delle miscele di sostanze chimiche con acqua e sabbia, pompate nel sottosuolo a pressione elevatissima, in modo da permettere la fuoriuscita degli idrocarburi intrappolati nelle rocce.

E secondo una ricerca americana della Duke University, che ha esaminato i dati di oltre 12.000 pozzi di shale gas/shale oil negli Stati Uniti tra 2011 e 2016, la quantità d’acqua impiegata per il fracking in ogni singolo pozzo è aumentata fino al 770% nel periodo considerato.

Mentre i volumi di liquido di scarto, che comprende l’acqua di ritorno, tossica e altamente salina, sono cresciuti fino al 1440% nel medesimo periodo.

Anche il World Resources Institute (WRI) in una recente pubblicazione ha spiegato che il rischio idrico (water risk) è una delle principali minacce per il funzionamento delle centrali a gas, carbone e nucleari nelle regioni aride o semiaride, caratterizzate da siccità, scarse precipitazioni e dalla competizione tra i diversi usi dell’acqua nell’agricoltura, nelle industrie e per l’approvvigionamento quotidiano delle abitazioni.

Tra l’altro, secondo gli esperti del WRI, lo stress idrico è destinato a peggiorare nei prossimi anni, a causa di numerosi fattori, tra cui l’incremento dei consumi energetici, i mutamenti climatici, la sovrappopolazione urbana, gli investimenti in nuove centrali fossili, soprattutto in Asia, un continente quest’ultimo che sembra ben lontano dal rinunciare all’uso massiccio di carbone.

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