Perché vanno portate le energie rinnovabili nei campi profughi

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Solo nell’Africa sub Sahariana e in altre aree povere del mondo ci sono circa 80 milioni di persone con la condizione di rifugiato, spesso senza accesso all’energia elettrica. Uno studio indica alcune soluzioni tecnologiche.

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Sono 82,4 milioni le persone in fuga nel mondo. Di questi, l’86% è accolto in campi profughi ubicati in gran parte presenti nei Paesi in via di Sviluppo.

Se vogliamo considerare il popolo dei rifugiati come una comunità, ancorché frammentata geograficamente, allora dobbiamo porci il problema di come rendere dignitose le loro condizioni di vita. Naturalmente l’accesso a beni primari quali l’energia, l’acqua e il cibo ha un ruolo strategico.

Diversamente da quanto succede nei Paesi industrializzati, la transizione energetica verso le fonti rinnovabili porterebbe a un significativo miglioramento della qualità della vita di questi milioni di persone, più che a un mero miglioramento della loro impronta ecologica, mitigando comunque anche l’impatto ambientale e sanitario causato dalla combustione di biomasse in condizioni non certo ottimali.

L’80% circa della popolazione ospitata nei campi profughi brucia infatti biomasse per cucinare e che il 90% ha un accesso limitato o non ha accesso all’elettricità.

Ma chi sono queste persone, quali sono e come si possono stimare i loro profili di consumo per arrivare a una pianificazione energetica ed economica che promuova adeguati investimenti a loro favore?

Non è dato sapere quanti siano i campi di rifugiati nel mondo. Solo alcuni di questi sono gestiti direttamente dall’ONU attraverso le sue diverse organizzazioni (UNHCR, UNRWA, OCHA, ecc.) ma, grazie a uno studio di recente pubblicazione dal titolo “Planning sustainable electricity solutions for refugee settlements in sub-Saharan Africa” (in fondo all’articolo) si è potuta avere una prima banca dati.

La domanda di energia rinnovabile nei campi di rifugiati dell’Africa sub-Sahariana

Il Refugee Settlements Electricity Access Database (RSEA DB, accessibile in modalità interattiva da CEA tool) contiene informazioni dettagliate e armonizzate sul fabbisogno elettrico, le potenziali soluzioni tecniche e i costi associati per portare energia rinnovabile in 288 campi profughi dell’Africa sub-Sahariana.

Duccio Baldi, ricercatore e coautore dello studio, si è occupato della raccolta dei dati al fine di definire i profili di consumo. Si è stimato così che l’ammontare complessivo della domanda di elettrici di questi campi è di circa 154 GWh all’anno.

“Una stima tutt’altro che semplice – spiega Baldi – se si considera che un insediamento non è mai del tutto rappresentativo di altri insediamenti di rifugiati in Africa. Inoltre, persone che sono in fuga da periodi diversi, cui è o non è consentito lavorare, con diversi livelli di reddito o background, anche con riferimento all’uso dell’energia, possono avere una domanda molto diversificata di servizi energetici”.

I 154 GWh/anno sono calcolati per garantire almeno l’illuminazione, l’aerazione interna, la ricarica del telefono e l’alimentazione della televisione per 1.150.000 famiglie (la domanda di energia è di 200 Wh/giorno), ma anche per soddisfare la domanda stimata di quasi 59mila microimprese e circa 7mila carichi istituzionali.

Per avere un termine di paragone, anche in termini di impronta ecologica, quella considerata è una popolazione di circa 5 milioni persone, pari alla popolazione della Nuova Zelanda la cui domanda energetica, tuttavia, nel 2020 è stata di circa 39 TWh, cioè 150 volte superiore.

Quali soluzioni?

Per fornire energia rinnovabile è possibile realizzare impianti fotovoltaici collegati da mini-grid. Il 50% circa dei campi di rifugiati considerati nello studio si trova a una distanza media di oltre 10 km dalla rete di distribuzione elettrica, con distanze che spaziano da 1 km a 747 km. Inoltre, la maggior parte dei campi si trova in aree molto favorevoli in termini di irraggiamento: circa 2,200 kWh/m2 contro, ad esempio i 1.600 della regione Mediterranea.

La potenza fotovoltaica totale necessaria stimata sarebbe di circa 247 MW, in grado di alimentare anche 699 MWh di sistemi di accumulo (in 20 anni eviterebbero emissioni di CO2 per 2,9 Mt).

Il costo dell’accesso all’energia

Grazie alla collaborazione con la società che ha realizzato una mini-grid nell’insediamento di Kalobeyei (Kenya), dove è stata fatta la rilevazione dei dati, i ricercatori hanno potuto stimare in 1,34 miliardi di $ il costo complessivo per realizzare gli impianti e le mini-grid nei 288 siti considerati.

“L’investimento iniziale per questa soluzione tutta rinnovabile – ci dice Baldi – è superiore alle soluzioni alternative ibride, che prevedono anche una quota di energia prodotta dai generatori diesel. Allo stesso tempo, tuttavia, diversi studi hanno dimostrato che la redditività economica del solo fotovoltaico è maggiore rispetto a quella del solo diesel”.

“È piuttosto difficile fare delle comparazioni puntuali del costo dell’energia nei diversi scenari – aggiunge Baldi – in quanto non sono disponibili informazioni sulla spesa energetica attuale e prospettica, sul reddito delle famiglie e sulla qualità del servizio, per citarne alcune”.

Lo studio usa come parametro fondamentale nella stima dei costi la domanda elettrica per nucleo famigliare e dimostra che c’è una relazione pressoché lineare tra il consumo medio per famiglia e l’investimento inziale.

“Combinando i risultati dello studio con stime recenti per i campi profughi in Rwanda – spiega Baldi – il costo mensile per famiglia di un servizio elettrico affidabile e rinnovabile ammonterebbe a circa il doppio della spesa corrente per candele e torce elettriche, arrivando a pesare per il 4% circa del reddito medio per famiglia”.

I benefici socio-economici anche per comunità locali ospitanti

In teoria i campi profughi dovrebbero essere una soluzione provvisoria al problema delle migrazioni umanitarie e per questa ragione sono inizialmente dotati di infrastrutture minime, funzionali a garantire i bisogni primari dei rifugiati oltre a quelli delle organizzazioni che gestiscono i campi. Tuttavia, nella pratica, questi campi diventano spesso stabili, insieme alle persone che ci vivono.

L’UNHCR parla ormai di “insediamenti” in luogo di “campi”, confermando l’idea di situazioni ormai stabili, con due e anche tre generazioni nate e vissute in questi insediamenti con lo status di rifugiati.

L’accesso a un’energia sostenibile e affidabile in contesti di sfollamento sta ricevendo una crescente attenzione come un bisogno umano fondamentale e un fattore abilitante dello sviluppo a lungo termine non solo delle popolazioni di rifugiati, ma anche delle comunità ospitanti.

La disponibilità di una buona base di dati georeferenziati, come visto in un precedente studio del Politecnico di Milano (Come progettare da remoto e a basso costo una rete elettrica di distribuzione nei Pvs), ha consentito di verificare che numerosi insediamenti di rifugiati sono in aree dove anche le stesse comunità locali non hanno accesso all’elettricità.

Analizzando la distribuzione della popolazione locale senza accesso all’elettricità e i confini dei campi diventa allora possibile avere indicazioni su dove occorre fornire energia ai rifugiati insieme a quello della popolazione locale, eventualmente favorendo l’integrazione di milioni di persone ormai stabilizzate nei paesi ospitanti, ancorché prive di diritti di cittadinanza.

“La presenza di una mini-grid alimentata a energia solare nell’insediamento di Kalobeyei – conclude Baldi – ha aumentato il numero di attività informali gestite da rifugiati e comunità ospitanti: venditori di bevande fresche, punti di ricarica per telefoni, parrucchieri e molte altre imprese che hanno portato persino all’apertura di una filiale di una banca locale all’interno dell’insediamento”.

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