Le spese in armi e le guerre causano elevatissime emissioni di gas serra: ad esempio, solo l’aumento di budget previsto dai membri Nato si stima porterà fino a circa 200 milioni di tonnellate di CO2 l’anno in più emesse in atmosfera, una quantità pari a quella di un Paese da 250 milioni di abitanti come il Pakistan.
Ma questo, forse, non è neanche l’impatto peggiore del riarmo sul tentativo di evitare gli effetti più gravi del surriscaldamento globale: le tensioni da cui nasce, e che a sua volta genera, danneggiano quella fiducia e quel multilateralismo indispensabili per affrontare la sfida climatica.
Inoltre, ogni dollaro speso in armi è un dollaro sottratto agli investimenti urgenti in decarbonizzazione e adattamento.
Intanto il cambiamento climatico stesso contribuisce a creare guerre. Nel Darfur, ad esempio, i conflitti sono partiti dalla competizione per l’acqua dopo lunghi periodi di siccità e desertificazione. In Siria, la siccità vissuta il 2006 e il 2011 è tra le cause della guerra civile durata quasi 14 anni. Nell’Artico, invece, il ritiro dei ghiacci marini sta generando tensioni su chi debba controllare le risorse di petrolio, gas e minerali critici e le rotte di navigazione che stanno diventando accessibili.
Questo è il messaggio di uno studio anticipato ieri dal Guardian e pubblicato oggi: “How increasing global military expenditure threatens SDG 13 on climate action”, un lavoro del Conflict and Environment Observatory (Ceobs), redatto su invito dell’Ufficio Affari del Disarmo delle Nazioni Unite per analizzare l’impatto dell’aumento globale della spesa militare sul raggiungimento degli SDG, cioè i noti obiettivi di sviluppo sostenibile (link in basso).
L’analisi si concentra in particolare sull’obiettivo di sviluppo sostenibile 13, Azione per il clima: “Dall’analisi dei sotto obiettivi emerge una minaccia reale alle azioni climatiche globali causata dall’aumento della spesa militare”, spiegano gli autori.
Il 5,5% delle emissioni globali
Tra tutte le funzioni statali, si spiega, le forze armate sono tra le più ad alta intensità di CO2, sia per i materiali di cui si dotano – molto energivori da produrre – sia per le operazioni sul campo, alimentate da combustibili fossili.
La letteratura scientifica citata nel report stima che, nel complesso, le forze armate siano responsabili del 5,5% delle emissioni globali.
Ci si attende che questa cifra aumenti con l’escalation delle tensioni in varie regioni e con la pressione esercitata dagli Stati Uniti – da decenni il principale investitore militare al mondo – affinché i partner Nato aumentino significativamente le loro spese militari.
Data la segretezza che circonda solitamente le attività militari, è difficile sapere con precisione quante emissioni producano. Solo i Paesi della Nato forniscono dati sufficienti per permettere ai ricercatori di stimare le emissioni.
Per questo la ricerca si concentra sull’alleanza atlantica, ma una minaccia altrettanto consistente, se non maggiore, viene anche dal riarmo in corso degli altri attori internazionali.
Un mondo in fase di riarmo
Secondo l’ultima edizione del Global Peace Index (2024, con dati 2023), il livello di militarizzazione è aumentato in 108 Paesi. Attualmente, 92 Stati sono coinvolti in conflitti armati – dall’Ucraina a Gaza, dal Sud Sudan alla Repubblica Democratica del Congo – mentre le tensioni tra Cina e Stati Uniti su Taiwan crescono, e lo scontro congelato tra India e Pakistan rischia di riaccendersi.
Il mondo viene da un decennio di crescita della spesa militare, con un totale globale che ha raggiunto la cifra record di 2.700 miliardi di dollari all’anno, una cifra spaventosa. In questo scenario, i governi, timorosi di un’eventuale guerra, stanno investendo pesantemente nelle proprie forze armate. Si definisce “il paradosso della sicurezza”, che spinge poi ad usarli concretamente questi arsenali.
L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto ad un drastico aumento della spesa militare Ue: tra il 2021 e il 2024 è aumentata di oltre il 30%. Nel 2024 ha raggiunto una cifra stimata di 326 miliardi di euro, pari a circa l’1,9% del Pil europeo, quasi raggiungendo l’obiettivo Nato del 2%, peraltro destinato ad aumentare.
A marzo,preoccupata per i tagli di Donald Trump agli aiuti militari e al sostegno diplomatico all’Ucraina, l’Ue ha presentato un piano chiamato ReArm Europe, che prevede ulteriori spese per 800 miliardi di euro.
L’impatto dell’aumento della spesa Nato
I ricercatori hanno calcolato la crescita delle emissioni che si verificherebbe se i Paesi Nato (esclusi gli Usa, che già spendono molto più degli altri) aumentassero del 2% la quota del Pil destinata alla spesa militare, un incremento già in atto, in particolare in risposta alla guerra in Ucraina.
Nonostante il target Nato sia di portare la spesa al 2% del Pil, infatti, nei Paesi Ue il piano ReArm Europe potrebbe farla salire fino al 3,5%, partendo da circa l’1,5% del 2019. Lo stesso dovrebbe avvenire in altri Paesi Nato non membri Ue, come il Regno Unito.
Gli autori del rapporto anticipato dal Guardian hanno adottato la metodologia di uno studio recente, secondo cui ogni aumento dell’1% del Pil destinato alla spesa militare produce un incremento delle emissioni nazionali tra lo 0,9% e il 2%. È stato quindi stimato che innalzare di due punti percentuali la spesa del Pil destinata al settore militare, come previsto dal piano Ue, potrebbe generare un aumento delle emissioni nel blocco Nato compreso tra 87 e 194 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno.
Adottando le stime più recenti del costo sociale della CO2, cioè il danno economico causato da ogni tonnellata di CO₂ emessa, pari a 1.347 $/tCO2e, il costo annuo del riarmo Nato andrebbe da 116 a 264 miliardi di dollari.
E questa, sottolineano gli autori del report, è solo una frazione del reale costo climatico della militarizzazione: i calcoli si basano su 31 Paesi, che rappresentano solo il 9% delle emissioni globali. Se si considerasse l’intero impatto globale, i numeri sarebbero ben più alti.