L’Europa affronta una fase di grande incertezza a causa delle posizioni del presidente Trump, come si è visto dal suo controverso coinvolgimento nelle trattative sull’Ucraina.
Ciò obbliga ad una riflessione sulla necessità di essere non solo più forti politicamente (verso il miraggio dell’Europa Unita) e militarmente, ma anche di accelerare sul fronte dell’innovazione in molti settori strategici, dall’intelligenza artificiale a quello energetico.
Ridurre la dipendenza dalle importazioni fossili è un obbiettivo sempre più importante per la sicurezza e per ridurre il costo dell’energia. E va considerata anche l’accelerazione della crisi climatica, una sfida assolutamente sottostimata nell’attuale dibattito internazionale.
Solo attraverso un impegno congiunto tra scienziati, industria, mondo della politica, ambientalisti e cittadini, l’Europa potrà raggiungere gli obbiettivi del Green Deal e del nuovo Clean Industrial Deal, per rafforzarsi economicamente e riacquistare un ruolo importante dal punto di vista economico.
Si rafforza il ruolo di punta della Cina
Nel panorama mondiale c’è però una leadership che si sta decisamente consolidando, quella della Cina. Alcuni dati significativi segnalano il sorpasso di Pechino nell’ambito della transizione green globale.
Le emissioni cinesi di CO2 raggiungeranno presto il picco ed è possibile che questo avvenga già quest’anno, grazie anche alla rapidissima crescita delle rinnovabili. Molto prima, dunque, rispetto alle previsioni cinesi di arrivarci entro il 2030, per poi aprirsi all’impegno di riduzione delle emissioni.
Pechino aveva definito l’obiettivo di installare 1.200 GW solari ed eolici alla fine di questo decennio, un target che è stato già raggiunto nel 2024, con sei anni di anticipo. E, con l’ulteriore rafforzamento previsto per il 2025, consoliderà nettamente la sua leadership mondiale.
La crescita esponenziale dei sistemi di accumulo rafforza inoltre le aspettative di poter contare sempre meno sulla necessità di nuove centrali a carbone.
L’altro comparto dove la Cina sta accelerando incredibilmente è quello della mobilità elettrica. Le case automobilistiche cinesi producono ormai oltre la metà dei veicoli elettrici prodotti nel mondo. Con il miglioramento delle caratteristiche (già comunque molto avanzate anche sul fronte digitale) e la riduzione ulteriore dei costi, i marchi cinesi elettrici finiranno per inondare il mercato globale.
Già ora oltre metà delle auto vendute in Cina è elettrica e la percentuale è destinata a salire. E si inizieranno a vedere gli effetti sia sulla qualità dell’aria che sulla domanda di greggio.
Entro il 2030 i veicoli elettrici dovrebbero, infatti, ridurre la domanda mondiale di petrolio di quasi 6 milioni di barili al giorno. Non molto, poco più del 5% della domanda di greggio, ma un indizio del suo inesorabile declino.
La vera sfida riguarderà in realtà i passi successivi, considerato che la Cina intende raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060. Un percorso che dovrà essere molto più rapido rispetto a quelli dell’Ue e degli Stati Uniti, che si sono impegnati per la neutralità climatica entro il 2050, ma con emissioni che hanno raggiunto il picco rispettivamente nel 1979 e nel 2005.
Ed è significativo il fatto che l’anno scorso il 10% della crescita del Pil cinese sia stato legato alle tecnologie energetiche “clean”, con vendite e investimenti che hanno raggiunto 1,9 trilioni di dollari.
Solare, veicoli elettrici e batterie hanno fatto da battistrada. L’intero comparto della mobilità elettrica, con 13 milioni di nuovi veicoli, ha assorbito investimenti per 638 miliardi $, seguito dal solare (277 nuovi GW) con una mobilitazione di 392 miliardi $, un incremento di dieci volte in 5 anni, mentre altri 151 miliardi $ sono andati ai sistemi di accumulo e 46 miliardi al nucleare.
Tanto che, secondo BloombergNEF, anche l’obiettivo della neutralità carbonica potrebbe essere anticipato al 2050.
Gli Usa nella bufera
Dall’altra parte dell’oceano, gli Stati Uniti erano lanciati nella transizione verde grazie all’avvio da parte dell’Amministrazione Biden dell’Inflation Reduction Act.
La produzione di moduli solari è quintuplicata e gli Usa sono oggi il terzo produttore al mondo. Complessivamente le industrie del solare negli ultimi due anni hanno annunciato investimenti per 36 miliardi $, con la prospettiva di creare 44mila posti di lavoro. Un’onda che doveva portare la capacità di moduli solari a oltre 50 GW.
Peraltro, va sottolineato come circa l’80% degli investimenti manifatturieri stimolati dall’Inflation Reduction Act siano destinati a Stati governati dai repubblicani dove stanno creando un boom manifatturiero. Nei quasi tre anni trascorsi dal suo lancio, il settore privato ha annunciato l’intenzione di spendere 166 miliardi di dollari per fabbriche di pannelli solari, turbine eoliche, veicoli elettrici.
E nel biennio 2023-24 gli investimenti pubblici nella transizione energetica e nei semiconduttori sono più che raddoppiati rispetto alla media dei precedenti quindici anni.
Ma l’elezione di Trump ha creato panico e confusione, e qualche progetto è già stato bloccato in attesa di notizie certe.
Ci sono conseguenze preoccupanti anche sulla ricerca e l’innovazione che certamente verranno rallentati, proprio mentre dovrebbero accelerare.
La nuova amministrazione è negazionista sul fronte climatico malgrado che nel 2024, gli Stati Uniti abbiano subito notevoli perdite economiche dovute a disastri naturali (gli uragani Helene e Milton) per un totale di 218 miliardi $ a cui si aggiungono i drammatici danni degli incendi in California.
Dunque, i segnali sulla necessità di agire erano potenti.
Ma la tendenza in atto invece è preoccupante. Il Dipartimento dell’Energia, ad esempio, ha interrotto oltre 40 ricerche sulle rinnovabili, rendendole inaccessibili, rallentando così l’innovazione tecnologica.
Non solo, il programma di sostegno per i progetti eolici offshore è stato bloccato, ostacolando lo sviluppo in Stati come New York e Massachusetts. Del resto, si sa che Trump considera gli aerogeneratori brutti, costosi e pericolosi per i volatili.
Va comunque detto che la resilienza del paese renderà più problematica la frenata. Ricordiamo che, durante la prima presidenza Trump, partita con l’ipotesi di rilanciare il carbone, ben 65 impianti alimentati da questo combustibile sono stati chiusi.
L’Europa alla ricerca di nuovi posizionamenti
Pur avendo ottenuto risultati molto interessanti nelle rinnovabili (lo scorso anno l’elettricità solare europea ha superato quella da carbone, mentre i kWh eolici hanno battuto quelli dal gas), la Ue rischia di essere in forte difficoltà sulla ricerca e la commercializzazione delle innovazioni, accentuata dalla dipendenza da tecnologie e materie critiche straniere.
Come recuperare lo svantaggio?
La ricerca è destinata a svolgere un ruolo chiave nel portare l’Ue verso la neutralità climatica entro il 2050. Sia il settore pubblico che quello privato hanno bisogno di adottare tecnologie “dirompenti”.
L’Innovation Fund, ad esempio, è un importante strumento per la diffusione di tecnologie in grado di decarbonizzare l’industria europea e sostenere la sua transizione verso la neutralità climatica, promuovendone al contempo la competitività.
Resta il fatto che gli investimenti dell’Unione in R&S sono insufficienti, pari al 2,3% del Pil contro il 3,5% degli Usa. L’Ue dovrebbe raggiungere l’obbiettivo del 3%, ma si trova in un momento storico delicato in cuiè richiesto anche un forte incremento delle spese della difesa.
Visto il nuovo panorama internazionale dovrebbe inoltre collaborare maggiormente con altri paesi, come Giappone, Corea del Sud, Australia e Canada, per contrastare l’influenza della Cina e degli Usa in settori chiave.
Per avere successo, l’Unione europea deve però superare le sue sfide interne, aumentare gli investimenti e sfruttare i suoi punti di forza, come il mercato unico, la sostenibilità e l’attenzione ai diritti digitali.
Solo attraverso un approccio coordinato e strategico, potrà competere con Usa e Cina, garantendo al contempo prosperità economica, resilienza e leadership tecnologica.
In questo contesto in rapida evoluzione, la scienza svolgerà un ruolo essenziale per sviluppare tecnologie innovative in grado di favorire il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi del Green Deal europeo, puntando alla neutralità climatica entro il 2050 e alla riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
Come ha sostenuto recentemente Mario Draghi, “per far fronte alle sfide dell’Ue, è sempre più chiaro che dobbiamo agire come se fossimo un unico Stato. La complessità della risposta politica che coinvolge ricerca, industria, commercio e finanza richiederà un grado di coordinamento senza precedenti tra tutti gli attori: Governi e Parlamenti nazionali, Commissione e Parlamento europeo.”
L’articolo di Gianni Silvestrini è l’editoriale della rivista QualEnergia Science.