Nuove infrastrutture gas, perché l’Italia rischia di rimanere col cerino in mano

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L'emergenza di breve-medio termine non deve portare a investimenti eccessivi nel gas, perché la tendenza è quella di un calo dei consumi e una forte crescita delle rinnovabili. L'analisi.

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Se guardiamo alle proposte di nuovi impianti di liquefazione di gas negli Stati Uniti, troviamo un ingolfamento di progetti per nuove infrastrutture, in risposta allo spread tra il prezzo del gas in Europa e Asia e quello americano.

È normale, e non significa che tutti quegli impianti verranno effettivamente realizzati. Quelli che verranno costruiti prima, ripagheranno almeno in parte il capitale, altri saranno sorpresi dalla riduzione dello spread proprio in seguito agli investimenti e resteranno con il cerino in mano, altri progetti rimarranno sulla carta.

Mi preoccupo di più, da cittadino e contribuente, quando le scelte infrastrutturali sono pubbliche, come quelle dei due rigassificatori già acquistati in Italia (e non noleggiati come avvenuto in Germania) con la garanzia del Governo. Uno dei quali, tra l’altro, potrebbe dover rinunciare a diventare operativo a Piombino, vista la resistenza della Regione Toscana e di una parte dell’opinione pubblica locale.

Il Governo Draghi e poi quello Meloni si sono impegnati a una produzione elettrica nel 2030 con il 72% da fonti rinnovabili (è nella strategia di transizione energetica del Cite), che significa – insieme ad altre azioni coerenti con il Green Deal – una ventina di miliardi di metri cubi in meno di gas consumati all’anno in Italia. Ai quali potrebbe aggiungersi una parte strutturale di calo dei consumi, in seguito ai prezzi elevati dell’ultimo anno.

Del resto, il calo della domanda di gas a ottobre 2022 sembra portare l’Italia in una tendenza già vista in Germania, dove nei primi 10 mesi del 2022 il calo complessivo è di circa il 13%. Numeri che negli stessi mesi non abbiamo visto in tal misura in Italia, a causa della tenuta del gas per il settore termoelettrico, a sua volta conseguenza della minore disponibilità di idroelettrico, emergenza oggi speriamo almeno temporaneamente accantonata.

A fronte di questo trend piuttosto impressionante per dimensione, abbiamo investimenti massicci in arrivo sia sulla capacità dei paesi esportatori di Gnl sia su quella dell’Europa di ricevere tale gas, senza contare gli investimenti in coltivazione di nuovi giacimenti anche da parte di aziende italiane, in violazione di accordi presi dall’Italia stessa nell’ambito della CoP 26 di Glasgow.

Infine, c’è la questione del gas russo. Se già è opinabile (e mi auguro che risulti presto falso) che a tempo indeterminato l’Europa smetta di usare gas russo anche nel caso in cui il regime di Mosca cambi, è invece sostanzialmente certo che almeno parte del gas siberiano se ne andrà in Cina, attraverso nuovi impianti di interconnessione già in programma.

Quel gas, pur non arrivando più fisicamente in Europa, contribuirà comunque ad abbassare il prezzo mondiale, grazie all’effetto di arbitraggio del Gnl.

Il rischio, oggi, è quello di fare infrastrutture come riflesso condizionato a un’emergenza di breve-medio termine, da parte di una politica poco lungimirante. Il che già è un problema pubblico nei casi in cui i soldi sono pubblici, ma che poi diventerà generale quando per difendere l’operatività delle stesse infrastrutture, divenute ridondanti, si tenderà ad attuare ulteriori politiche incoerenti con quelle per il clima.

Investire contemporaneamente nelle politiche del clima e nelle fossili, da un lato fa perdere risorse, dall’altro rallenta la transizione.

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