In Italia potrebbe “funzionare” tutto – produzione di elettricità, industrie, trasporti, riscaldamento degli edifici e così via – con un mix energetico al 100% di fonti rinnovabili e sistemi di accumulo, senza bruciare combustibili fossili.
È quanto assume lo scenario energetico ipotizzato nel nuovo lavoro di Aspo Italia (sezione italiana dell’associazione scientifica che studia il picco del petrolio) e del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), di cui abbiamo parlato di recente (si veda Mix energia Italia: 100% rinnovabili e tanti accumuli. Uno scenario di Cnr-Aspo Italia).
Torniamo ora sulla questione, per capire meglio quali sono gli assunti, i calcoli e i limiti di questo studio con la nostra intervista a Luca Pardi, ricercatore del Cnr e autore “corrispondente” per il rapporto.
Precisando, con le parole di Pardi, che “lo studio ha uno scopo didattico ed esemplificativo” che quindi “non ha l’ambizione di proporre un piano energetico”. È “uno studio di sensibilità, per comprendere meglio come i diversi interventi previsti nella transizione energetica potrebbero contribuire alla copertura del fabbisogno”.
Partiamo dai numeri generali: può spiegare meglio come si è arrivati a calcolare lo scenario con 700 TWh/anno di consumi elettrici complessivi in Italia?
Abbiamo identificato il fabbisogno energetico riferendoci a quelli che, nel diagramma del Lawrence Livermore National Laboratory [immagine sotto, ndr.] per l’anno 2017, sono definiti “Energy Services”, cioè l’energia finale necessaria per riscaldare e illuminare gli ambienti, muovere persone e merci e far funzionare le macchine da cui siamo circondati, che vanno dalle macchine industriali, agli elettrodomestici, ai computer. Il valore è depurato di tutte le perdite, quindi è la metà circa di quella che normalmente è definita “energia per usi finali”, pari a 1.460 TWh per l’Italia nel 2017, da cui appunto si arriva al valore di 697 TWh approssimati a 700 TWh.
Quali interventi, secondo lei, consentirebbero di dimezzare, come “immaginato” nello studio, questi consumi, portandoli a 350 TWh? E quali politiche e misure andrebbero messe in campo?
Questi interventi sarebbero oggetto della seconda parte dello studio, che è in fase preliminare. Posso solo dire che alcuni interventi imprescindibili saranno l’efficientamento di tutto il patrimonio edilizio (secondo le direttive Ue), l’uso generalizzato dei sistemi più efficienti di consumo e, infine, tutte le misure che incentivino l’inversione della logica attuale in cui la generazione insegue il consumo.
Avete anche valutato, e in che misura, i consumi per la mobilità elettrica?
Il tema della mobilità è il meno approfondito dello studio. Abbiamo attribuito al consumo per il trasporto 370 PJ/anno, pari a circa 100 TWh l’anno. Abbiamo inoltre assunto (in modo molto rozzo) un consumo costante a carico del trasporto, corrispondente alla potenza di 10 GW. Ovviamente, questa approssimazione può essere passabile su base mensile, molto meno su base settimanale, assolutamente irrealistica su base oraria. Perciò su questo punto è senz’altro necessario un approfondimento. Ma a questo livello di analisi, allo scopo di indagare l’effetto di varie misure su un sistema elettrico interamente basato sulle rinnovabili, l’approssimazione ci è sembrata sufficiente.
Il nodo cruciale per avere un mix energetico con il 100% di rinnovabili è certamente dato dagli accumuli, in particolare quelli stagionali. Lo studio punta moltissimo sulla tecnologia Power-to-gas: come si spiega questa scelta?
Nota: nello studio si parla di tecnologia P2M2P (Power-to-methane-to-Power) per identificare lo stoccaggio di metano di sintesi con cui poi alimentare le centrali a gas, utilizzate per coprire gli ammanchi di energia notturni e invernali.
La nostra scelta, che non è un matrimonio, nel senso che siamo disposti a cambiare idea, si basa sul fatto che, almeno in Italia, il costo di stoccaggio di grandi quantità di idrogeno dal surplus estivo per l’inverno, sarebbero proibitivi (si stima che nel resto d’Europa vi siano ampie prospettive di stoccaggio dell’idrogeno nelle caverne di sale, ma queste non sono presenti in Italia). Il metano permetterebbe inoltre di utilizzare infrastrutture già esistenti, in particolare, gli stoccaggi, alcuni dei gasdotti e alcune centrali turbogas.
E come si affronta il problema delle emissioni di CO2 provenienti dalle centrali a gas previste nel vostro modello?
Il metano verde da noi pensato come mezzo di accumulo, è ottenuto dalla metanazione della CO2 (CO2 “catturata” al camino delle centrali a turbogas e stoccata in precedenza) con idrogeno verde, a sua volta ricavato dal surplus estivo di energia fotovoltaica (reazione Sabatier).
Ma non si rischia, facendo ampio affidamento su questa soluzione, di mantenere un’eccessiva dipendenza italiana da impianti e infrastrutture legate al gas naturale?
L’Italia è un paese industrializzato e di media latitudine: se non viene totalmente stravolta la sua struttura energetica, economica e, quindi, sociale, a transizione avvenuta avremo ancora bisogno di energia chimica per produrre energia elettrica. È nostra convinzione che il sistema paese avrà bisogno di grandi infrastrutture interconnesse. Serviranno una rete gas, degli impianti chimici di produzione e conversione dei gas, dei cospicui sistemi di stoccaggio, parecchie centrali elettriche a gas (per una potenza complessiva non molto diversa da quella installata attualmente) e una ancor più potente rete di trasporto dell’energia elettrica.
Quali sono le differenze tra la vostra soluzione e un sistema basato invece sulla tecnologia CCS (Carbon Capture and Storage)?
Abbiamo pensato a un’infrastruttura basata su metano di sintesi che fosse neutra dal punto di vista delle emissioni di CO2. Cosa completamente diversa da un’infrastruttura come quella attuale, basata sul gas naturale, anche quando fosse dotata di un sistema di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS). Idealmente, infatti, il nostro sistema è ciclico, la CO2 viene stoccata e recuperata (al netto delle perdite reintegrate con biogas). Mentre con un sistema CCS si resta in un’ottica di economia lineare, seguendo la quale si rimanda il problema finché non si esaurisce la risorsa e/o saranno saturi gli eventuali stoccaggi di CO2.
È plausibile, secondo lei, che l’innovazione tecnologica nel campo degli accumuli elettrochimici consentirà di fare anche accumulo di maggiore durata? Le batterie potranno sostituire, almeno in parte, l’uso di idrogeno/metano, oppure valutate altre forme di accumulo stagionale?
Le batterie non potranno essere impiegate per accumuli diversi da quello circadiano [periodo di 24 ore, ndr.], perché avranno comunque un elevato costo specifico per kWh immagazzinato, che per essere ammortizzato richiederà un numero molto alto di cicli di carica/scarica. Come ho detto, abbiamo inserito il P2M2P nei nostri scenari per evidenziare in che modo lo stoccaggio stagionale allevia il problema dell’ammanco di energia notturno e, soprattutto nell’autunno-inverno. Poi siamo apertissimi a nuove soluzioni. Una cosa ci sembra ineludibile. Il costo in conto capitale (capex) di sistemi di stoccaggio che funzionano potenzialmente due volte l’anno, devono essere bassi. È difficile immaginare che l’accumulo in batterie diventi concorrenziale con quello dell’accumulo sotto forma di combustibile.
Servirà anche molto idrogeno per i settori cosiddetti “hard-to-abate”, difficili da elettrificare, in particolare le industrie pesanti. Visti i bassi rendimenti da fonte rinnovabile a idrogeno, avremo sufficiente surplus di energia elettrica rinnovabile per produrre tutto questo H2 verde?
I problemi dell’idrogeno, più che nella sua generazione, risiedono nello stoccaggio. Difatti, su scala giornaliera o settimanale, è pensabile a uno stoccaggio locale, che allevierebbe il problema generale dell’accumulo circadiano. Su scale più lunghe, è necessaria una produzione di idrogeno on demand, da energia elettrica. Può comunque essere più efficiente una elettrificazione anche di questi usi, va valutato caso per caso quale sia la soluzione più efficiente.