“Uno straccio di accordo, patetico e zoppo”. Con queste parole George Monbiot, giornalista del Guardian, ha sintetizzato il risultato della 26a conferenza internazionale sul clima.
Anche questa Cop di Glasgow, a parte alcuni impegni non vincolanti e tutti da definire nel corso dei prossimi anni, dimostra il fallimento del multilateralismo nei negoziati per ridurre le emissioni di gas serra, o quanto meno la sua inadeguatezza a determinare risultati con una tempistica plausibile.
Anche in Scozia non sono stati fatti significativi passi in avanti, al di là di alcuni nuovi tecnicismi e dichiarazioni di intenti ormai fuori tempo massimo, vista l’accelerazione degli eventi climatici estremi che si stanno verificando ovunque. Anche nel 2021. Ma sembra che tutti i governi, e non solo, abbiano la memoria di un pesce rosso.
Secondo alcuni era difficile aspettarsi di meglio per l’enorme complessità “tecnica” dei negoziati. Per altri non si poteva essere troppo ottimisti, visto che l’organizzazione aveva permesso l’accesso a più di 500 delegati del comparto delle fonti fossili. Come ha scritto qualcuno, c’erano più colpevoli che vittime, perché i delegati delle nazioni più colpite dalla crisi climatica erano meno dei delegati delle lobby fossili.
Per altri ancora, le attese erano comunque già pari a zero a prescindere da questi aspetti di contorno. In realtà è proprio questo macchinoso modello di negoziato che richiede il consenso generale, e quindi compromesso sempre al ribasso, che sta dimostrando di essere alla corda.
Sarebbe il momento di prevederne una revisione, ma sarà molto difficile perché è proprio questo metodo che consente ai governi di procrastinare le vere decisioni pratiche.
Sul multilateralismo legato al clima, cioè sulla necessità di affrontare una crisi globale con soluzioni su scala planetaria, andrebbero dette due parole.
Di certo arriveranno pesanti strali da più parti, ma forse dovremmo cominciare a farci qualche domanda dopo quasi tre decenni di scarsissimi successi: poiché il consenso su questo tema incide pesantemente sulla struttura socioeconomica dei paesi, come si può ragionevolmente pensare di arrivare ad un contratto vincolante utile a livello planetario quando i paesi hanno disuguali basi di partenza, economie a stadi molto distanti tra loro, risorse, sistemi industriali e interessi spesso completamente differenti?
Nessun accordo, con oneri equamente distribuiti, sarà mai raggiunto in tempi coerenti con le leggi fisiche planetarie quando persistono così tanti divari, a meno che il collasso non diventi palpabile anche sulla pelle delle classi sociali ricche delle economie più forti. Ma anche su questo ci sarebbero parecchi dubbi.
Dovremmo anche chiederci se questa modalità di negoziato è un processo, benché lentissimo, verso futuribili decisioni globali o se serve solo per frenare l’azione di molti paesi attenti al Pil interno e/o agli interessi della lobby di carbone, petrolio e gas.
Possiamo ancora esaltarci per alcuni risultati sulla carta, che verranno masticati per anni (ad esempio da Parigi 2015 a Glasgow 2021 e oltre), e spesso disattesi, confondendoli per progressi?
Il rischio è che questi eventi diventino sempre più una passerella mediatica per taluni, e per altri la possibilità di dire “io c’ero”. Un consesso autoreferenziale che si autoalimenta, ammettendo tuttavia il notevole impegno profuso da molti esperti.
Il punto è che affidare tante aspettative a questi negoziati rischia di creare delle speranze che verranno poi disattese, provocando uno stato di demotivazione a chi vi si era affidato forse ingenuamente. Uno scoramento molto rischioso, perché può portare al disimpegno dall’obiettivo fondamentale che sicuramente dovrà coinvolgere tutti.
Forse i negoziati mondiali sul clima dovrebbero avere pochi obiettivi circoscritti e cogenti nella misura e nei tempi (ad esempio gli aiuti finanziari ai Paesi in via di sviluppo, che attendono da 12 anni).
Sappiamo che le decisioni verranno prese da pochi paesi (quelli che emettono l’80% dei gas serra), e dovrebbero essere proprio loro a trovare degli accordi concreti con incontri serratissimi, più volte nel corso di un anno, evitando di rimandare le virgole all’anno o agli anni successivi.
Forse l’unico modo per riuscire a smuovere la situazione con una certa rapidità è responsabilizzare ciascuno Stato, indipendentemente dalle decisioni globali, a mettere subito sul terreno, secondo le proprie possibilità e risorse, politiche e interventi chiari e concreti che puntino alla forte diffusione delle fonti rinnovabili, dell’efficienza e del risparmio energetico, degli accumuli, senza le solite scappatoie (vedi Ccs o nucleare o crediti del carbonio).
Non basterà, ma la rivoluzione tecnologica ed energetica che si richiede per risolvere, almeno in parte, la crisi climatica, si diffonderà ovunque “per osmosi”, senza bisogno di accordi dall’alto perché creerà competizione e imitazione non solo a livello economico ma anche socio-culturale. La storia umana delle transizioni tecnologiche lo dimostra.
Va stimolata una concorrenza virtuosa tra gli Stati per salvaguardare le generazioni future: sempre più rinnovabili e sempre meno risorse fossili, anno dopo anno… senza aspettare la Cop 50.