I conflitti nelle proposte di Green New Deal

Sul fatto che sia necessario un Green New Deal c’è un esteso consenso, ma su come ottenerlo il disaccordo è ampio.

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La proposta di un Green New Deal raccoglie quasi tutte le forze che intendono affrontare contestualmente la crisi climatica e quella economica: finanziare la transizione energetica con un grande piano pluriennale di investimenti.

Include versioni che si distribuiscono tra due polarità: sviluppo sostenibile e conversione ecologica. Sviluppo significa crescita e sostenibile (in francese durable) vuol dire che non può arrestarsi, cosa impossibile in un Pianeta finito.

I fautori di questo indirizzo protestano: la crescita è solo quantitativa; lo sviluppo riguarda anche il “fattore umano”. Vero. Ma uno sviluppo senza crescita non è possibile.

Crescita però, dicono, non significa necessariamente continuare ad aggredire le risorse dell’ambiente e intasarlo di scarti; è possibile separare aumento del Pil e consumo di risorse fisiche (decoupling).

È una tesi su cui si sono spese per anni le principali agenzia mondiali (Ocse, Commissione Europea, Unep, Banca Mondiale) senza trovare alcun riscontro empirico se non per pochi settori e per periodi limitati; ma è stata affossata in modo definitivo da Decoupling debunked: metaricerca dell’European Environmental Bureau su indagini svolte da 143 enti in 30 Paesi.

Per questo filone di pensiero la svolta ecologica necessaria non impone un sostanziale cambiamento negli stili di vita e nell’organizzazione sociale.

A produrre la svolta saranno le imprese, sotto lo stimolo di una forte pressione popolare, ma soprattutto in vista di convenienze create dal minor costo delle energie rinnovabili e da incentivi e penali istituiti da un mercato “governato”.

Rientrano in un approccio analogo le tesi di Jeremy Rifkin nel saggio Un Green New Deal Globale che, accanto a una generale redistribuzione del potere nel passaggio dall’era fossile alla “Terza rivoluzione industriale”, sviluppa una visione tecnica e quasi deterministica della transizione, imposta a suo avviso dai quattro pilastri del futuro assetto: l’Internet dell’informazione, dell’elettricità, delle cose e dei trasporti.

Ma a un Green New Deal si richiamano anche figure che si dichiarano socialiste come Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn e Yanis Varoufakis in Europa o movimenti e attivisti che non si connotano in tal senso, come Sunrise e Naomi Klein o Vandana Shiva e Navdanya.

L’elemento che li accomuna, assente nelle visioni precedenti, è il conflitto: per loro la lotta contro la crisi climatica ricomprende in sé obiettivi e istanze delle classi, delle comunità e dei gruppi sfruttati, emarginati, più esposti al degrado ambientale e sociale.

Gli esponenti inseriti nei processi istituzionali lavorano a programmi di governo, sconfinando facilmente, nella prospettiva di uno stato imprenditore.

Mentre quelli più legati ai movimenti cercano di portare alla luce gli obiettivi generali a partire dai conflitti in corso, mettendo a fuoco soprattutto le ferite che le politiche estrattiviste e sviluppiste infliggono ai territori, intesi come ambiti entro cui si concretizza il rapporto che ogni comunità dovrebbe poter intrattenere con l’insieme del vivente per potersi costituire come tale.

Un rapporto in cui qualità, distribuzione e origine del cibo svolgono un ruolo centrale. Al centro di questo approccio emerge il nesso indissolubile tra giustizia sociale e giustizia ambientale, la “conversione ecologica” che Alex Langer aveva prospettato trent’anni fa, precisando che per affermarsi doveva essere “socialmente desiderabile”.

Questo articolo è stato pubblicato sul n.5/2019 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Conflitto verde”.

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