In teoria quella da fusione nucleare è “l’energia perfetta”.
Scaldando a 100 milioni di gradi in grandi “bottiglie” fatte di campi magnetici, nuclei degli isotopi dell’idrogeno deuterio e trizio, li si obbliga a unirsi, producendo nuclei di elio e una quantità di energia, sotto forma di neutroni, pari a 4 milioni di volte quella della combustione di una uguale massa di metano.
Di deuterio nel mare ce n’è quanto se ne vuole, mentre il trizio può essere prodotto dalla stessa centrale a fusione, irradiando di neutroni il litio, elemento le cui riserve garantirebbero energia da fusione per tutti per almeno 1000 anni.
Problemi di sicurezza? Molto minori che per il nucleare ad uranio: la fusione non produce scorie pericolose per millenni, ma solo metalli “attivati” dai neutroni, che restano radioattivi per circa un secolo, mentre non ci sono rischi di incidenti catastrofici, perché a ogni minimo disturbo il processo si spegne.
Deve essere per queste prospettive che ogni volta che viene annunciato un qualche progresso nello sviluppo dell’energia da fusione, i media italiani perdono la testa, sfornando articoli in cui sembra che fra pochi giorni la luce di casa sarà garantita da questa fonte. Con il corollario, magari non voluto, che non ci sia più bisogno di perdere tempo con quelle rinnovabili, capricciose e inaffidabili: il fuoco eterno di Prometeo è ormai a portata di mano.
Forse, però, prima di gridare Eureka, sarebbe meglio informarsi meglio sulle reali prospettive di questa fonte, facendo qualche domanda specifica a ricercatori come la fisica Paola Batistoni, responsabile della sezione sviluppo e promozione della fusione di Enea, che è pronta a dare informazioni trasparenti sullo stato dell’arte del settore in cui opera da 35 anni.
Batistoni lavora ora al gigantesco progetto ITER, frutto della collaborazione delle maggiori potenze scientifiche mondiali, che sta costruendo un tokamak (dispositivo in cui il plasma di isotopi di idrogeno è confinato in una ciambella di campi magnetici) per la fusione di 30 metri di diametro e 20 di altezza.
ITER non produrrà elettricità, ma servirà a mettere a punto le tecnologie di DEMO, prototipo di centrale a fusione che dovrebbe cominciare a produrre energia dal 2050.
Dottoressa Batistoni, personalmente amo i grandi progetti scientifici internazionali, come la Stazione Spaziale o l’acceleratore LHC, anche se destinati soprattutto alla ricerca pura. Quindi può andar bene spendere 13 miliardi di dollari in ITER, che sicuramente amplierà le nostre conoscenze e produrrà importanti ricadute tecnologiche, ma ho forti dubbi che da questo progetto uscirà qualcosa che serva a risolvere la crisi energetica e ambientale globali.
«Libero di pensarla così, ovviamente. Io sono invece convinta che anche se la sfida di riprodurre sulla Terra i processi che fanno funzionare le stelle è difficile, alla fine ne verremo a capo, producendo qualcosa di molto utile all’umanità. Abbiamo già fatto molti progressi e, sulla base di ciò che abbiamo imparato, abbiamo un piano per ciò che resta da fare».
Bene, allora vediamo punto per punto cosa mi renda dubbioso. Prima di tutto c’è la questione dell’elio. ITER userà magneti superconduttori, senza i quali la fusione potrebbe avvenire solo per pochi secondi, perché i normali magneti si surriscalderebbero. Ma i magneti superconduttori funzionano a -268 °C, richiedendo per raffreddarsi elio liquido, un gas abbastanza raro che non è pensabile possa bastare per migliaia di futuri reattori a fusione.
«È vero, ma ci sono moltissime ricerche dirette a realizzare magneti superconduttori che funzionino alla temperatura dell’azoto liquido, -195 °C, e che abbiano anche le caratteristiche elettriche e meccaniche necessarie per la fusione nucleare. Siamo fiduciosi che in futuro siano disponibili».
La fiducia è una bella cosa, ma prima di investire 13 miliardi nel progetto, non era meglio aspettare di verificare se quel progresso fosse possibile?
«Non potevamo aspettare che si risolvesse ogni problema tecnologico prima di fare ITER: quell’impianto ha lo scopo di dimostrare la fattibilità scientifica e tecnologica della fusione producendo 500 MW di potenza di fusione, 10 volte più di quanta ne verrà immessa nella camera di reazione per scaldare il plasma (aggiungendo però gli altri consumi energetici, per esempio per il raffreddamento, Iter consumerà quasi tanta energia quanta ne produce, ndr). Quando questo risultato sarà ottenuto, sarà possibile costruire una centrale a fusione anche con la tecnologia attuale dei magneti e, in seguito altre con i magneti raffreddati ad azoto liquido, quando disponibili».
Ma, ripeto, se questi magneti non appariranno, pare difficile che la fusione “ad elio liquido” sia su scala globale. Comunque, un altro dei punti critici è come fare a rimuovere dal plasma l’elio prodotto dalla fusione, che lo “inquina” e che è fatto di nuclei a 100 milioni di gradi, che vaporizzerebbero qualsiasi materiale.
«Le particelle che sfuggono dall’estremamente rarefatto plasma contenuto nel tokamak, fra cui i nuclei di elio, sono convogliate su un dispositivo, chiamato divertore, fatto di metallo ad alto punto di fusione. In ITER questo dispositivo sarà fatto in tungsteno e raffreddato ad acqua. Tuttavia, è vero che quella soluzione potrebbe non essere sufficiente per DEMO, il cui divertore dovrà resistere a una potenza ancora maggiore e per periodi più lunghi. Il compito di studiarlo è stato affidato proprio all’Italia, con l’esperimento DTT».
Altro problema da risolvere è come portare via il calore per trasformarlo in elettricità: la fusione nucleare produce energia sotto forma di neutroni sette volte più energetici di quelli dei reattori a uranio, che danneggiano i metalli e li rendono radioattivi. All’interno del tokamak c’è il vuoto, per cui la ciambella deve essere molto robusta, per resistere alla pressione esterna, mentre intorno ad essa ci sono i magneti e il sistema di raffreddamento a elio liquido: i neutroni non indeboliranno queste strutture fondamentali?
«In effetti è necessario che la camera di contenimento (la ciambella) resti integra per tutta la vita del reattore. Per questo ha al proprio interno un mantello metallico che ha lo scopo di schermarla dal flusso dei neutroni. Questo in Iter conterrà anche litio che assorbirà molti di quei neutroni, producendo trizio. L’energia dei neutroni nel mantello si trasforma in calore, che verrà asportato dal sistema di raffreddamento e che, nelle future centrali, produrrà il vapore per le turbine. Il mantello e il divertore andranno, in effetti, periodicamente sostituiti per i danni da neutroni, mentre la parte strutturale esterna riceverà un flusso di neutroni più sopportabile e quindi non sarà sostituita».
E come si farà a sostituirli se tutto il metallo del tokamak diventerà tanto radioattivo da non poter essere avvicinato da esseri umani?
«La radioattività indotta nei componenti del tokamak in effetti crescerà durante la vita del reattore. Questo sarà quindi racchiuso in uno schermo di protezione biologica, e ogni intervento di riparazione o manutenzione dovrà essere effettuato con mezzi robotici. Stiamo anche sviluppando nuovi tipi di acciaio che resistano meglio ai neutroni e diventino anche meno radioattivi. L’obiettivo è che la radioattività a fine vita del reattore possa decadere in 100-150 anni di inattività, dopodiché i materiali possano essere riciclati»
Quindi serviranno anche sofisticati robot, con elettronica in grado di resistere ad alte dosi di radiazioni, che al momento non credo esistano. Anche il problema del trizio non è banale: se ogni fusione deuterio-trizio produce un solo neutrone e solo una parte dei neutroni colpisce il litio per produrre trizio, come farà una centrale a produrne abbastanza da auto sostentarsi?
«Mescolati con il litio, nel mantello ci saranno elementi come il berillio o il piombo, che moltiplicano i neutroni che li colpiscono, così da compensare quelli mancanti. Uno dei compiti di ITER sarà proprio di provare alcune delle soluzioni per il mantello attualmente allo studio».
Insomma, ci sono ancora diversi grossi problemi tecnologici da risolvere prima di arrivare alle centrali a fusione. Intanto, però, nel mondo si sono moltiplicati altri progetti, sia pubblici che privati, che, nonostante abbiano budget molto più ridotti di ITER, dicono di aver fatto grandi progressi. Uno, il progetto Sparc a cui partecipano ricercatori del MIT finanziati da ENI, afferma addirittura di essere in grado di creare reattori a fusione commerciali dal 2030. Non avete paura che qualcuno arrivi prima di voi al traguardo?
«Non è una corsa, lavoriamo a creare una fonte di energia utile all’umanità, e chiunque ci riesca è il benvenuto. Ad Iter siamo però consapevoli delle sfide che abbiamo ancora da superare per arrivare all’elettricità da fusione, noi e tutti gli altri. Per questo ci siamo dati dei traguardi in tempi realistici: ITER a piena potenza nel 2035 e DEMO in funzione intorno al 2050. Un’accelerazione è possibile, ma promettere tempi irrealistici credo sia azzardato».
Diciamo allora che nessuno vi superi e che da qui al 2050 grazie a ITER risolviate tutti i problemi che avete ancora davanti, compresi quelli che non si è ancora certi siano risolvibili, tipo i superconduttori ad alta temperatura, e infine che DEMO funzioni bene. Ma non crede che i reattori a fusione saranno comunque così cari, complicati e bisognosi di personale iperspecializzato, che la loro diffusione sarà molto inferiore alle migliaia di esemplari necessari per fare la differenza nella decarbonizzazione globale dell’energia?
«Le centrali a fusione commerciali saranno più semplici, sia come struttura sia come modo di operare, rispetto ai primi prototipi come DEMO. E i loro componenti, beneficiando di un’economia di scala, non saranno costosi quanto quelli di ITER. Per favorire questo passaggio da prototipi a impianti commerciali standard, efficienti ed economici, servirà la collaborazione dell’industria, che già ora, per questa ragione, stiamo coinvolgendo sempre di più nel progetto».
C’è infine l’argomento che più dovrebbe preoccupare chi punta sulla fusione nucleare: in 20 anni solare ed eolico sono passati da essere carissimi e prodotti in piccola scala, a essere installati a centinaia di GW ogni anno, a costi sempre più bassi e fornendo ormai energia più economica di qualsiasi altra fonte. Da qui al 2050, quando accenderete DEMO, le rinnovabili domineranno i sistemi energetici mondiali, fornendo energia pulita, infinita, senza scorie, in gran parte autoprodotta sul territorio e resa programmabile da sistemi di accumulo. Che spazio potrà avere allora la costosa e complessa fusione nucleare, in un mondo che avrà imparato a fare a meno dei grandi impianti centralizzati?
«Rinnovabili e fusione nucleare non sono in competizione, sono complementari. È vero che solare ed eolico potranno essere resi programmabili dai sistemi di accumulo, ma è probabile che questi richiedano materiali e spazio in una scala tanto grande da avere un impatto non trascurabile sull’ambiente. Assicurare la fornitura di energia baseload con una fonte pulita compatta e programmabile come la fusione nucleare, potrebbe essere l’opzione migliore.
Ma non crede che, come accaduto alle rinnovabili, nei prossimi 30 anni i sistemi di accumulo e le reti di interscambio dell’energia autoprodotta, si perfezioneranno tanto che potremo fare a meno di centrali baseload?
«È difficile fare previsioni a lungo termine. Ma sono convinta che dobbiamo lavorare alla soluzione fusione nucleare per dare comunque un’alternativa energetica affidabile e pulita all’umanità. Ricordiamo che non si tratta solo di sostituire totalmente le fonti fossili, si dovrà anche risolvere il problema della povertà energetica che affligge ancora tanta parte dell’umanità».
Beh, se la fusione servirà a quello, allora tanti auguri per le future centrali a deuterio-trizio in Congo, Nicaragua o Afganistan. A nostro avviso, a sollevare il mondo dalla povertà energetica è più probabile che saranno semplici impianti locali a rinnovabili con accumulo, piuttosto che gigantesche, costosissime e complicatissime centrali. Ma, come si dice, chi vivrà vedrà.