Eni, Snam e Cassa Depositi e Prestiti hanno sottoscritto oggi un accordo per promuovere iniziative congiunte e partnership soprattutto per produrre, trasportare e commercializzare l’idrogeno (il comunicato).
Tutto lascia pensare che questa intesa, che parla di “impegno verso la decarbonizzazione” e che si inserisce, spiegano le tre aziende, “nella direzione del target di riduzione del 55% delle emissioni di CO₂ al 2030”, non porti a nulla di tutto questo, ma si inserisca, anzi, nell’ennesimo tentativo di continuare a concentrare il potere economico-finanziario di queste aziende nella salvaguardia di uno status quo per un modesto ridimensionamento delle emissioni senza innescare però un reale processo di transizione energetica.
L’attività riguarderà anche la produzione e l’utilizzo di idrogeno nei trasporti ferroviari. Si annunciano quindi piani per lo sviluppo della produzione, del trasporto (particolarmente costoso, come quanto ha scritto di recente GB Zorzoli) e della commercializzazione dell’idrogeno verde.
Tuttavia in realtà Eni, con la voce del suo Ad Descalzi, spiega che il futuro è nella cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), nella filiera dell’idrogeno, verde e blu, e nei “prodotti decarbonizzati” per la mobilità sostenibile (sempre da fonti fossili) e, certo, anche con un po’ di rinnovabili.
Obiettivi generici di contrasto ai cambiamenti climatici con tecnologie che non risolveranno la graduale uscita dalle fossili e prevedranno certamente infrastrutture costose e non facilmente ripagabili o smantellabili che rinvieranno ancora per anni la realizzazione di un sistema energetico veramente fossil free.
A parte l’idea bizzarra di usare l’idrogeno per le ferrovie quando il loro naturale sviluppo dovrebbe essere, quasi sempre, l’elettrificazione, non si capisce dove starebbe l’economicità di progetti di Carbon Capture and Storage, dissimulati come i soliti progetti “ponte”, verso un radioso, sebbene indefinito, futuro a fonti rinnovabili.
Continua, insomma, la tattica dilatoria per rallentare il passaggio alle fonti rinnovabili, e l’idrogeno (colorato dal verde al grigio, passando per il blu), che non vuol dire energia pulita tout court, diventa il cavallo di troia che ci racconta una storia del tipo: siamo qui per cambiare, ma in fondo vogliamo rimanere a galla con il nostro modello di business basato sugli asset tipicamente da fonti fossili.
Ricordiamo che Eni nel suo piano d’azione 2020-23 prevede investimenti nelle rinnovabili per 2,6 miliardi di euro, mentre per petrolio e gas verrà speso quasi dieci volte più (24 mld €). Snam punta molto sul trasporto dell’idrogeno visto che oggi i suoi tubi sono vuoti per il 50% (fonti della stessa azienda), per il calo della domanda di gas. Cdp dovrebbe anche spiegare perché favorire il gas e idrogeno e il loro trasporto piuttosto che l’elettrificazione dei consumi, quando detiene un terzo di Terna, l’operatore della trasmissione elettrica italiana.
La strategia è conosciuta: un po’ di green, senza dubbio, e un po’ di riduzione delle emissioni in qualche settore importante come l’industria e la mobilità pesante (GNL, gas naturale compresso, idrogeno, biometano), ma alla fine ancora tanto gas con l’aiutino, tutto da dimostrare e dai costi esorbitanti, del CCS.
Il punto è che a muoversi sono tre colossi di parziale proprietà dello Stato che da sempre fanno la politica energetica di questo paese, alla faccia delle buone intenzioni (a volte) dei governi, spesso fragili e poco inclini a chiedere un concreto cambiamento a queste aziende.
Insomma, ci vorremmo tanto sbagliare, ma il processo di decarbonizzazione del nostro sistema energetico, nonostante quanto dichiarato da Eni, Snam e Cdp, è ancora molto complicato.