Chi sta facendo ingenti guadagni importando gas a prezzi relativamente bassi e rivendendolo agli attuali valori stellari non contribuirà a ridurre i costi delle bollette. Dall’ultimo decreto contro il caro energia è infatti sparita la tassa sui cosiddetti extra-profitti di chi importa gas in Italia con contratti pluriennali a un prezzi più bassi di quelli di vendita.
La misura, contenuta nella bozza entrata nel consiglio dei ministri dello scorso 22 giugno, non c’è nella versione finale, approvata dal Cdm la sera del 30 giugno e che confluirà nel ddl di conversione del decreto 50/2022, noto come Dl Aiuti.
La tassa avrebbe dovuto interessare le imprese che importano gas in Italia con contratti di approvvigionamento di durata superiore a un anno e prevedeva, dal primo luglio 2022 al 31 marzo 2023, un contributo da versare alla Cassa per i servizi energetici e ambientali (Csea) calcolato sulla differenza tra la componente Cmem (cioè il costo della materia prima in bolletta) e il prezzo medio di importazione risultante dai contratti degli operatori.
Se nella bozza del 22 giugno non era indicata la percentuale di questo prelievo, la versione entrata nel Cdm del 30 giugno – stando a indiscrezioni di stampa – avrebbe fissato a un modesto 10% la percentuale del contributo, ridotto di tre mesi il periodo di contribuzione (1° ottobre 2022 – 31 dicembre 2022) e, soprattutto, precisato che i quantitativi di gas importati oggetto della misura dovessero essere al netto di quelli destinati agli stoccaggi.
Nonostante questo ammorbidimento, però, la norma non ha trovato posto nella versione del decreto pubblicata in Gazzetta.
Potrebbe forse aver pesato il timore di frenare gli acquisti di gas in questo momento così critico. Anche se va detto che, oltre ad escludere il metano per gli stoccaggi, la misura sarebbe stata accompagnata, nello stesso provvedimento, da altre norme volte proprio a favorire il riempimento di questi ultimi: utilizzo delle garanzie Sace per la liquidità delle aziende che devono comprare gas per gli stoccaggi (art. 5 del dl) e un mandato al Gse (art. 4) affinché acquisti fino a 4 miliardi di euro di gas da immettere in stoccaggio e da vendere dopo il 31 dicembre 2022.
Il sospetto è che a far sparire la tassa siano gli interessi di quel cane a sei zampe che ha un grosso peso nella nostra politica energetica. “La norma – fanno notare ad esempio da ReCommon – interessava soprattutto Eni, che si approvvigiona per oltre la metà del gas che rivende in Italia attraverso contratti di questo tipo, come quelli con Gazprom e l’algerina Sonatrach.
L’aliquota prevista per la tassa era già piuttosto modesta, pari al 10%, ma forse era il principio stesso a essere ritenuto inaccettabile dalla principale multinazionale italiana.”
Gli accordi siglati negli ultimi mesi con Algeria, Egitto, Congo, e Qatar sono destinati a far lievitare la quota di gas che Eni importa mediante contratti long-term. “Una tassa sui profitti derivanti da tali contratti, seppure esigua, avrebbe introdotto un precedente fastidioso per il Cane a sei zampe”, commentano dal think tank anti-fossili.