Disuguaglianze e conflitti nelle crisi: insegnamenti per costruire società green ma eque

Dall'emergenza Covid-19 a quella climatica: per attenuare opposizioni e conflittualità servirà un Green Deal socialmente inclusivo. Una sfida complessa ma necessaria per tutelare tutti nella transizione ecologica.

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Con l’avvio della Fase 2, continuano a susseguirsi eventi che, come ho sottolineato in un mio precedente intervento su QualEnergia.it, assomigliano a un film che in due ore concentra quanto, nell’evento da cui trae ispirazione, avviene nel corso di qualche decennio.

Da un lato la Fase 1 ha precipitato tutti in un regime di restrizioni alle libertà personali, imponendo drastici cambiamenti negli stili di vita, distribuiti però in modo diseguale. C’è chi ha perso anche il modesto reddito con cui sopravviveva, altri vedono la propria attività imprenditoriale minacciata dalla bancarotta. È diverso condividere l’isolamento in un monolocale o in un confortevole appartamento.

Dall’altro, la Fase 1 ha messo in evidenza sorprendenti analogie con la situazione che si verificherà tra qualche decennio, se nel frattempo non riusciremo ad evitare una catastrofe climatica. Con una non trascurabile differenza: in tal caso, i divieti sarebbero molto più drastici e destinati a durare per decenni; per farli rispettare, si dovrà ricorrere a limitazioni crescenti alle libertà dei cittadini, con la prospettiva di ridurli a soggetti passivi di governi autoritari.

Ebbene, il dibattito/scontro sulle scelte che si devono compiere nella Fase 2 ripropone sorprendenti analogie con quanto accade già oggi, quando si avanzano proposte per accelerare il processo di decarbonizzazione dell’economia.

Sarebbe stato più semplice prorogare la Fase 1 fino ad azzerare i casi di contagio, come pare sia avvenuto a Wuhan, ma il precipitare della crisi economica lo ha impedito. L’altra scelta altrettanto semplice – abolire di colpo tutti i divieti – darebbe di nuovo semaforo verde al Covid-19.

L’unica opzione realistica – fuoriuscire gradualmente dalla Fase 1 – impone però di stabilire un calendario delle riaperture differenziato tra le singole attività che, per proteggere la salute dei cittadini, oltre tutto le consente solo se si rispettano determinati criteri.

Ma ordinare a un negozio, sulla base della sua metratura, di consentire l’ingresso contemporaneamente a una o più persone, modifica soltanto il tempo di attesa dei clienti. Un ristorante, che dovrà riaprire alcune settimane dopo, avrebbe invece dimezzato il numero di coperti.

Anche se il programma di fuoriuscita dal lockdown fosse dettato da motivazioni tutte difficilmente confutabili, incontrerebbe comunque l’opposizione di chi, proprietario o lavoratore, è costretto a una ripresa della propria attività posticipata rispetto ad altre. Poiché a difesa delle scelte fatte i decisori politici invocano i pareri degli esperti, un effetto collaterale può essere il calo del credito di cui costoro hanno goduto nella Fase 1.

Anche nel contrasto all’emergenza climatica assistiamo alla replica del medesimo copione. La soluzione più semplice sarebbe approvare contemporaneamente in tutto il mondo un carbon price così elevato da costringere all’immediata chiusura tutte le attività che emettono gas serra, ma, come nel caso del prolungamento del lockdown fino all’azzeramento del contagio, la catastrofe climatica sarebbe evitata provocandone una economica.

Procedere per gradi, però con la necessaria tempestività e senza mettere a rischio il sistema economico, richiede il varo di misure che comunque comportano sostanziali modifiche all’attuale modo di produrre e di consumare. Per quanto con effetti graduali e scaglionati nel tempo, esse alla lunga metteranno fuori gioco attività radicate nell’attuale organizzazione sociale e molti dei relativi posti di lavoro.

Di fronte a un rischio tangibile e immediato, qual è il riaccendersi del contagio, il ritardo nella riapertura di qualche settimana ha già fatto montare una protesta che sta spingendo alcune regioni ad anticipare le scadenze decise dal governo.

Di fronte al rischio di una crisi climatica, che sappiamo incombente, ma non immediato, condizione per molti sufficiente per avvertirlo come lontano, non sarà certo più facile vincere le resistenze anche a provvedimenti senza conseguenze economiche dirette: ad esempio limitare in via definitiva la mobilità privata negli agglomerati urbani.

D’altronde, se un calo della popolarità goduta nella Fase 1 da virologi ed epidemiologhi sembra probabile, nei confronti degli ambientalisti è già uno stato d’animo presente, sintetizzato in uno slogan dei gilet gialli francesi: “voi vi preoccupate della fine del mondo, noi di come arrivare alla fine del mese”.

Proprio per evitare che conflittualità di questa natura mettano a rischio il raggiungimento della neutralità carbonica, la Commissione europea ha proposto un Green Deal socialmente inclusivo, cioè particolarmente attento alle regioni, alle industrie e ai lavoratori su cui maggiormente graveranno gli effetti della transizione energetico-climatica.

Si tratta di una sfida senza precedenti: per avere successo, richiederà ai movimenti ambientalisti di non concentrarsi, nel loro agire pratico, esclusivamente sui temi dell’economia ecosostenibile, prendendo atto che l’obiettivo è realizzabile soltanto se include misure in grado di garantire contestualmente opportunità di lavoro e riduzione dei divari retributivi.

Lo conferma il crescente successo dei Verdi tedeschi, i quali hanno integrato questi punti programmatici all’interno del loro tradizionale obiettivo – realizzare una green economy – riuscendo quindi ad avanzare non nominalmente, ma nelle iniziative politiche, proposte per la costruzione di una green society.

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