Big Oil&Gas sempre più sotto pressione: le tante cause negli States contro la Exxon

La Corte Suprema Usa ha stabilito che alcuni Stati, città e contee hanno il diritto di trascinare il gigante petrolifero nei tribunali locali per dirette responsabilità sui danni provocati dalle emissioni e per essere a conoscenza da tempo di questi possibili effetti.

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“Ci deve essere pure un giudice a Washington”.

Questa parafrasi del drammaturgo tedesco Bertold  Brecht, che però la faceva dire a un umile mugnaio che cercava a Berlino un giudice onesto per far causa all’Imperatore, venne in mente a molti dopo che nel 2015 uscì la notizia che la Exxon fin dagli anni ’80 aveva ben chiaro, grazie a studi effettuati da suoi ricercatori, che le emissioni di CO2 stavano danneggiando progressivamente il clima terrestre.

La Exxon non solo si attivò per bloccare la divulgazione della scoperta, ma cominciò anche a finanziare gruppi negazionisti, perché intorbidissero le acque del dibattito pubblico e fornissero ai politici degli appigli per ritardare le azioni contro le emissioni.

Insomma, se, secondo Brecht, serviva un giudice per impedire che l’Imperatore buttasse giù il mulino del pover’uomo perché gli disturbava la vista dal castello, figuriamoci se non serviva un magistrato americano che facesse pagare alla Exxon i danni planetari derivati dalla sua inazione, oltre alle migliaia di morti che il clima impazzito ha già causato.

Però sei anni dopo che i documenti comprovanti le responsabilità della Exxon erano venuti alla luce, pareva che la grande compagnia americana dell’Oil & Gas l’avesse fatta franca. Un tentativo di farle causa per le sue responsabilità, da parte di diversi enti locali americani, era stato bloccato dalla Corte Suprema, a grande maggioranza conservatrice.

Una conclusione amara, tanto più dopo che a fine 2022, uno studio condotto dai ricercatori di Harvard e del Potsdam Institute for Climate, aveva confermato l’alta qualità del lavoro svolto quaranta anni prima dai ricercatori Exxon (avevano previsto con precisione persino di quanto sarebbero aumentate le temperature medie in questi nostri anni), aumentando quindi il carico di responsabilità della compagnia nel tenere deliberatamente nascosta quella scoperta e aver finanziato dubbi e bugie.

Indifferente agli scoop giornalistici e alle prove scientifiche della sua responsabilità, la Exxon, insieme ad altre compagnie petrolifere, nel 2022 ha chiesto di nuovo alla Corte Suprema di bloccare, o almeno riunire e muovere a livello federale, le cause intentate dal 2018 in poi dagli Stati del Rhode Island e del Delaware, oltre che da varie città e contee californiane, delle Hawaii, del Maryland e anche dell’iper-repubblicano Colorado, che si ritengono danneggiate dalla riduzione del pescato, da incendi, alluvioni, mancanza di neve e ondate di calore, da collegare al climate change.

Contro la tattica dilatoria di Big Oil stavolta si è espressa però l’amministrazione Biden, mentre quella Trump l’aveva sostenuta, e forse anche questo fattore ha inciso sulla nuova decisione della Corte Suprema dell’aprile di quest’anno.

A sorpresa, lo stesso gruppo di giudici ha deciso con maggioranza di 7 contro 1 che quegli enti amministrativi hanno il diritto di trascinare il gigante petrolifero nei tribunali locali, per provare, caso per caso, a farlo condannare. E ciò aumenta di molto la possibilità che prima o poi qualcuno ci riesca davvero.

Essere riusciti a portare Big Oil in tribunale è già un’importante vittoria per i querelanti, ma non vuol dire che la causa sia vinta: i loro avvocati certamente sosterranno che l’attività dell’Oil & Gas non era e non è illegale, e che l’uso dei loro prodotti ha alimentato le moderne economie planetarie, distribuendo prosperità e comodità.

Dal loro punto di vista, si punta a distribuire anche la responsabilità del cambiamento climatico a chiunque abbia usato petrolio, gas o carbone e i loro derivati: spostare l’obbligo di agire contro le emissioni da loro ai consumatori, è in fondo la strategia comunicativa adottata da diverse industrie fossili da molti anni a questa parte.

Allo stesso modo, altri che hanno avuto successo nel trascinare questi produttori fossili in tribunale, come il contadino peruviano che se l’è presa con la grande compagnia tedesca del carbone RWE per la scomparsa del ghiacciaio con cui irrigava i suoi campi, o, più recentemente, Greenpeace e ReCommon contro Eni, avranno vita dura a convincere i giudici di una responsabilità diretta degli imputati per i danni denunciati.  Ma in questo caso un altro aspetto sembra stia emergendo: secondo i due querelanti Eni sapeva dell’impatto delle emissioni di gas serra sul clima già dal 1970.

Ed è proprio su questo punto che si deve osservare il caso Exxon. Qui la colpa principale non sembra essere quella di aver estratto e venduto combustibili fossili, ma di aver tenuto nascosto quanto sapeva sugli effetti della CO2 fossile sul clima.

Il dibattito verterà quindi sul fatto che avesse il dovere o meno di rendere pubblico quanto scoperto e quanto meno di astenersi dal finanziare chi negava la verità di cui era già a conoscenza.

Tutte azioni che hanno ritardato di decenni le misure contro le emissioni di gas serra, esacerbando la situazione e danneggiando milioni di persone.

Un po’ la stessa storia che emerge da un articolo del 1966, venuto alla luce nel 2018, che dimostrava chiaramente come l’industria del carbone sapeva all’epoca già molte delle che oggi conosciamo sui cambiamenti climatici (Negli anni ’60 l’industria del carbone sapeva dei cambiamenti climatici e delle sue cause).

Quella contro Exxon è una situazione giudiziaria per certi versi simile a quella che si è trovata ad affrontare nel 2015 in Canada Big Tobacco, accusata di sapere dei danni alla salute provocati dal fumo e di non aver fatto nulla, se non continuare con pubblicità ingannevoli e finanziando presunti esperti che negavano quei danni.

Riconosciuti colpevoli, Philip Morris e colleghi hanno dovuto pagare 15 miliardi di dollari di danni alle migliaia di persone che si erano unite in una class action, che aveva richiesto 23 anni per arrivare ad essere discussa in tribunale a causa dei vari aggiramenti legali degli ostacoli posti dai querelati.

Vedremo come andrà a finire questa volta, con la certezza che anche qui non sarà una cosa breve, vista la potenza di fuoco legale di Big Oil.

Certo è che se anche solo una di quelle cause finisse con una condanna della Exxon, si aprirebbero le cataratte delle denunce da parte di chiunque possa dimostrare di aver subito danni dall’inazione sul cambiamento climatico, in questi ultimi 40 anni: dai pastori somali messi in ginocchio dalla siccità ai filippini che hanno visto le loro città spazzate dai supertifoni, fino ai gestori di impianti sciistici rimasti a secco di neve naturale o di chi ha perso case e familiari a causa dei giganteschi incendi forestali di questi ultimi anni in mezzo mondo.

Chissà che alla fine non si trovi veramente un giudice, se non a Washington, in una qualche corte locale degli Usa, che faccia vincere Davide contro Golia.

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