L’auto elettrica in Italia: scenari di vendita, ricariche ed emissioni

L’auto elettrica è alla soglia di un nuovo paradigma per la mobilità: opportunità, incertezze e reazioni.

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L’auto elettrica come oggetto desiderabile, esistente e alla lunga ineluttabile, è stata metabolizzata dalle istituzioni, dalla cittadinanza e dall’industria, con sentori che per i diversi soggetti vanno dalla speranza alla curiosità alla preoccupazione.

Di fatto, la situazione del nostro Paese depone più che per altri verso una decisa politica di diffusione della mobilità elettrica. In questi ultimi anni la quota di fonti rinnovabili per la produzione elettrica è stata tra il 32 e il 39% annuo (Terna), con punte che in alcuni periodi hanno superato il 45%.

In sostanza le emissioni per la ricarica dell’auto elettrica sono già oggi largamente inferiori a quelle di ogni altra opzione. La quota di mercato delle elettriche e delle ibride plug-in resta però ancora assolutamente marginale in rapporto agli altri Paesi.

I crescenti vincoli comunitari sulle emissioni climalteranti hanno stimolato la formulazione di numerosi scenari di diffusione a medio e lungo termine (2030, 2050), con proiezioni su un esteso ventaglio stante l’incertezza dei fattori tecnici, economici e di policy che determinano il mercato.

Lo scenario al 2030 disegnato da Cives nel contesto delle proposte del Coordinamento Free sul Piano Nazionale Energia e Clima, si basa su tre ipotesi di fondo: la prima, che la politica di incremento delle fonti rinnovabili ponga convintamente in essere, e in modo cooperativo tra gli attori industriali e istituzionali, tutte le tecnologie disponibili da qui al 2030, così da avvicinarci il più possibile all’obiettivo del 32% di Fer per l’assieme dei consumi energetici nazionali (elettrici, termici, del trasporto).

La seconda, che la diffusione percentualmente più consistente delle Fer (vedi tabella 1) venga indirizzata al comparto trasporti, che finora è stato solo sfiorato dalla transizione energetica ed è il più arretrato in termini di emissioni.

La terza, che il consumatore e il mercato italiano reagiscano quantitativamente allo stesso modo di quanto verificatosi nei Paesi in cui sono state soddisfatte le aspettative dei consumatori (Osservatorio Eafo – European Alternative Fuels Observatory, al quale la stessa Cives contribuisce), agendo su incentivazioni e sullo sviluppo di una sufficiente rete di ricarica.

I primi due assunti conducono al 2030 a un potenziale fattore emissivo della produzione elettrica di circa 204 gCO2/kWh, che per una vettura elettrica di classe B si tradurrebbe in meno di 40 gCO2/km nell’uso reale.

Doppio mercato

L’analisi sintetizza che il mercato si sviluppa in due differenti fasi.

La prima fase (mercato assistito), con una blanda presenza di misure incentivanti economiche insufficienti comunque a portare alla competitività con i veicoli endotermici e l’avvio di un’infrastruttura di ricarica pubblica.

Sulla base del tasso di sviluppo rilevato in condizioni analoghe in altri Paesi Ue, la quota di mercato degli elettrici (inclusi gli ibridi plug-in con batteria ricaricabile dalla rete) si attesterebbe in Italia al di sotto del 3% del mercato auto annuo, per un totale di 150-250.000 veicoli al 2023-2025.

Interverranno nel frattempo una serie di variabili esogene (situazioni al contorno), capaci di innescare una crescita decisamente più vigorosa:

  • i nuovi vincoli Ue sulle emissioni medie di CO2 della produzione automotive (-30% al 2030 rispetto ai valori attuali);
  • la politica della Cina, che impone alle case automobilistiche interessate a quel mercato l’introduzione di una quota del 20% di autoveicoli elettrici, stimolando così una maggior produzione e forti economie di scala;
  • la radicale riduzione di costo delle batterie al litio già vista negli ultimi anni e che proseguirà col maggior mercato, e il contemporaneo aumento della loro densità energetica, che porteranno ad autonomie e costi competitivi delle auto elettriche. In sostanza, una situazione in grado di soddisfare le aspettative del consumatore.

Nei Paesi in cui, sia pure attraverso altri meccanismi (fortissime incentivazioni fiscali, economiche e regolatorie), tale obiettivo di “soddisfazione dell’utente” è stato raggiunto già da qualche tempo (Norvegia e in minor misura Svezia e Olanda), la quota di mercato degli elettrici ha visto incrementi annui del 6-7%, sino a sfiorare (Norvegia) l’attuale 50%.

Assumendo la stessa risposta da parte dei consumatori italiani, al 2030 avremmo un po’ più di 4 milioni di veicoli elettrici.

Una componente fondamentale di tale successo è naturalmente la contemporanea disponibilità di una adeguata rete di ricarica, che in Norvegia non si declina tanto nella dimensione della rete pubblica (12mila punti di ricarica per oltre 250mila auto elettriche nel 2018; in Italia ne abbiamo circa 4mila pubblici più altrettanti in aree private aperte al pubblico, per un circolante di 23mila auto elettriche), quanto nella quasi capillare diffusione della possibilità di ricarica domestica e aziendale.

Oltre l’80% delle ricariche avviene in tali ambiti, col vantaggio di un minor costo (vedi tabella 2), ma soprattutto con la percezione di un forte valore aggiunto, rappresentato dalla grande comodità di un punto di rifornimento nei luoghi dove l’auto è normalmente ricoverata di giorno o notte.

Ricarica determinante

In effetti anche negli altri Paesi, inclusa l’Italia, la maggioranza dei first adopters dell’auto elettrica sono quelli che hanno la possibilità di ricaricare a casa o in azienda, considerata l’inevitabile carenza di punti di ricarica pubblica all’avvio del mercato.

Ma la ricarica privata assume rilevanza anche maggiore in prospettiva, quando l’energia accumulata nelle batterie di milioni di auto elettriche potrà costituire il miglior serbatoio tampone per il pieno sfruttamento delle Fer, per loro natura aleatorie.

In Italia, almeno 18 milioni di automobili sono ricoverate in box o posti auto privati condominiali o aziendali e in garage a pagamento. Considerata la tendenza alla riduzione del parco auto nazionale, che anche per il crescente successo del car sharing potrebbe contrarsi a meno di 30 milioni di unità (oggi 37 milioni), la ricarica privata potrebbe coprire una quota assai significativa delle percorrenze elettriche italiane qualora in tali 18 milioni di box, posti auto e garage vi fosse un’adeguata disponibilità di energia elettrica.

Situazione quest’ultima sulla quale non vi è oggi alcuna informazione attendibile.

Un normale allacciamento elettrico da 3,3 kW potrebbe reintegrare nottetempo o durante l’orario lavorativo 150-200 km di autonomia, lasciando alla rete pubblica l’estensione a percorsi maggiori o ai veicoli ricoverati in strada.

In sostanza, logica vorrebbe che lo sviluppo della rete di rifornimento per la mobilità elettrica seguisse sin d’ora un approccio e una programmazione olistici in cui le due componenti, pubblica e privata, vedano il giusto ruolo e il giusto dimensionamento.

Il costo chilometrico con ricarica domestica/aziendale (non considerando i costi impiantistici per renderla possibile) appare decisamente competitivo con qualunque motorizzazione endotermica.

Orientarsi nella giungla dei costi alla ricarica pubblica è un esercizio da capogiro, stante la pletora di formule esistenti per l’accesso, gli eventuali abbonamenti, le formule promozionali, l’uso o meno di energia elettrica verde, il conteggio o meno della durata temporale della ricarica ed eventuali altri fattori e servizi offerti.

Considerando il solo costo dell’energia e limitandosi alla modesta casistica reperita in tabella, è però chiaro che la ricarica pubblica è inevitabilmente più costosa. Non mancano proposte tese a ridurre la tariffazione dell’elettricità destinata alla ricarica pubblica, per contenere per quanto possibile il divario.

Proposta che si scontra con i già mancati introiti fiscali derivanti dalle forti accise sui carburanti (mediamente 4 cent€/km). Ma a conti fatti i 4,3 milioni di veicoli stimati al 2030 nello scenario sopra riportato, porterebbero sì a una riduzione di entrate fiscali da accise di circa 2 miliardi/anno, ma nello stesso tempo ridurrebbero l’importazione di idrocarburi per più o meno la stessa entità (1,8 Mld secondo Cives, 2,4 Mjd secondo The European Climate Foundation).

Come comporre questo puzzle a quattro tasselli (tariffa elettrica domestica e pubblica, accise e risparmio nelle importazioni) è lasciato alla saggia immaginazione della politica.

Nuovo paradigma

Sta di fatto che, all’approssimarsi del nuovo paradigma della mobilità e nonostante i numerosi annunci di modelli elettrici delle case auto, si avverte ancora una certa timidezza e preoccupazione.

È comprensibile che l’industria non possa ancora affrontare una diffusione massiccia, che oltre alla rete di ricarica richiede investimenti per la riconversione produttiva, un’estesa rete di servicing e commerciale e impianti di riciclaggio delle batterie.

Per di più, un’ipotetica vendita vigorosa di auto elettriche fatta prima del 2021, avrebbe per effetto una riduzione delle emissioni medie di CO2 della produzione di ciascuna casa a tale data, che costituisce la base su cui calcolare gli ulteriori abbattimenti imposti dalla Ue per il 2025 e il 2030.

Vendere auto elettriche tra qualche anno potrebbe essere più fruttuoso che farlo adesso.

Non mancano atteggiamenti di reazione ancora più netti, che vertono in particolare su due aspetti. Il primo, che nel computo delle emissioni climalteranti complessive sul ciclo di vita dei veicoli vanno incluse anche quelle per la loro costruzione e quindi, per quelli elettrici, anche la batteria; considerazione corretta ma che sembra trascurare che dovrebbero analogamente venire dedotte le mancate emissioni relative ai componenti non presenti (cambio e trasmissione, marmitta e controllo fumi, ecc.).

Le stime sulle emissioni per la costruzione della batteria presentano ampi margini di incertezza, da 30 a 250 kg di CO2 per ogni kWh di batteria, la cui origine è in gran parte correlata alle fonti primarie usate per produrre l’energia elettrica nel processo manifatturiero (The International Coucil on Clean Transportation – Icct) e in minor misura alla presenza di metalli e additivi ad alta intensità energetica.

Il valore medio per la dozzina di stabilimenti di produzione attuali (molti in Paesi con una forte incidenza del carbone per la produzione elettrica), si colloca sui 175 kg CO2/kWh.

Per un’auto di classe B equipaggiata con 40 kWh le emissioni chilometriche sarebbero di circa 25 g CO2/km su una vita della batteria di 300mila km, che sommate ai 40 g/km per la ricarica nello scenario italiano sopra esposto, e senza dedurre le mancate emissioni per la componentistica meccanica assente nei veicoli elettrici, ne mantengono con ampio margine il pregio ambientale. Che sarebbe ancora migliore se le batterie fossero costruite in Europa con un mix elettrico migliore di quello asiatico.

Inoltre, i forti progressi delle batterie al litio sembrano confermare che dopo il loro onorato servizio a bordo dei veicoli, le stesse batterie non più in grado di rispondere ai pesanti regimi imposti dalla trazione, potranno avere una seconda vita in applicazioni stazionarie, ovvero proprio quale sistema di accumulo per la gestione equilibrata delle Fer aleatorie.

Secondo test della Bmz tedesca, le batterie della Tesla model 3 sopporterebbero oltre 1 milione di chilometri, dopo i quali inizierebbe la loro seconda vita. Questa prospettiva di “seconda vita” si traduce a sua volta in un alleggerimento dell’impatto ambientale (nella misura del 40% secondo Icct) esaltando ulteriormente l’appeal dell’elettrico.

Il secondo argomento oggetto di dibattito riguarda le emissioni inquinanti locali. Mentre in Italia l’Aci sostiene che le emissioni di polveri di un’auto diesel per usura di pneumatici, freni frizione e risollevamento del manto stradale sono sostanzialmente analoghe a quelle di un’auto elettrica, il Technology Collaboration Programme on Hybrid and Electric Vehicles della Iea stima per l’elettrica minori emissioni di polveri sottili del 40-50% sul ciclo di vita.

E per quanto riguarda i veicoli a metano, sembrano essere passate del tutto sotto silenzio le ricerche presentate nel 2017 alla Conference on Combustion Generated Nanoparticles di Zurigo, che sembrano indebolire per i motori a metano la consolidata nomea totale di assenza di polveri.

In sintesi, è vero che le polveri dei motori a metano sono contenute nei limiti consentiti dalla normativa; ma è altrettanto vero che quelle inferiori a 25 nanometri, non soggette a vincoli normativi ma particolarmente nocive per la salute, parrebbero essere fino a dieci volte più elevate di quelle dei motori diesel. Problema che potrebbe forse essere risolto aggiungendo appropriati filtri Fap, che non scalfirebbe comunque in alcun modo il primato dei veicoli elettrici in termini di emissioni climalteranti.

Questo articolo è stato pubblicato sul n.5/2019 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Movimenti ricaricabili”

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