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Energia per chi? Verso la democrazia energetica

In un articolo di Retenergie, un'analisi del concetto di democrazia energetica, dal rapporto con il potere statale alla solidarietà con le lotte per il decolonialismo fino ai paradossi di una transizione equa. Dal report “Towards Energy Democracy”.

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Il passaggio dalle energie fossili alle energie rinnovabili non sarà sostenibile se sarà limitato a uno switch di tecnologia, senza che siano modificate anche le strutture che sostengono l’attuale modello di produzione, distribuzione, vendita e consumo dell’energia.

Questa è l’idea di fondo e la stessa ragione di esistere di Retenergie e dell’intero movimento delle cooperative europee (REScoop.EU) cui Retenergie aderisce.

Il rapporto Towards Energy Democracy – da cui emerge la breve riflessione che segue e che abbiamo in parte e liberamente tradotto – riassume le discussioni e gli esiti di un workshop internazionale sulla democrazia energetica tenutosi a Amsterdam nel febbraio 2016.

Il workshop era organizzato da Transnational Institute, in collaborazione con Global Justice Now, Rosa Luxemburg Foundation Brussels Office, Platform Londra, Switched On London, Berlin Energy Roundtable, Alternative Information and Development Centre, Public Services International e Trade Unions for Energy Democracy initiative.

Nelle parole degli autori, il rapporto – “ha tentato di dare un’occhiata più approfondita ad alcuni dei problemi impegnativi che affrontano i movimenti e gli studiosi che perseguono la democrazia energetica, dal rapporto con il potere statale alla solidarietà con le lotte per il decolonialismo fino ai paradossi di una transizione equa”.

Quello che abbiamo trovato interessante, anche se non tratta dell’Italia e solo in pochi casi dell’Europa, è la disamina delle contraddizioni in cui rischiamo di cadere quando parliamo di transizione energetica e democrazia energetica, con riferimento in particolare alla transizione dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili. È sufficiente che ci sia produzione di energia rinnovabile perché si possa parlare di transizione energetica e perché l’energia sia anche democratica?

Energia per chi? Rinnovabile o equa e sostenibile?

Quali sono gli attori coinvolti? Chi guadagna dai progetti energetici e chi perde? Quale interesse viene servito? Quale conoscenza è messa a valore? La storia recente dei progetti energetici nel Sud del mondo è stata legata all’imposizione coloniale di un modello di sviluppo capitalistico e neoliberale e a politiche di adeguamento strutturale. Sono, ovviamente, le grandi società transnazionali e le istituzioni finanziarie che ne hanno beneficiato, a danno di innumerevoli vite e mezzi di sussistenza.

In America Latina, i progetti distruttivi per lo sviluppo hanno cercato legittimità avvalendosi del discorso della “sovranità energetica”. Mentre questo termine era stato utilizzato da movimenti sociali che cercano l’autogoverno con la resistenza al colonialismo, i governi hanno cooptato il termine per allinearlo al concetto di “sovranità nazionale”. Il termine è ora utilizzato principalmente per imporre megaprogetti energetici come ad esempio le grandi megadighe, giustificando questi enormi progetti con l’interesse nazionale, che trascura le preoccupazioni di un numero relativamente piccolo di persone indigene.

Nonostante questi nuovi progetti energetici, l’accesso all’energia resta un problema enorme in tutta l’America Latina dove 23,2 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità. Ad Haiti solo il 29% della popolazione (per lo più concentrato in e intorno alla sua capitale, Port-au-Prince) ha accesso all’elettricità.

L’India si sta rapidamente dimostrando leader emergente nelle energie rinnovabili. È il quinto produttore eolico più grande al mondo e il governo intende installare 175GW di rinnovabili nuove entro il 2022, con un aumento del 400 per cento della capacità solare entro il 2017. Allo stesso tempo, sono previste 400 nuove centrali a carbone e diverse nuove centrali nucleari, tra cui quella che sarà la più grande centrale nucleare del mondo a Jaitapur, dove migliaia di pescatori stanno per perdere il proprio sostentamento.

Chi beneficerà di questi nuovi progetti energetici, guidati principalmente dal settore privato? Attualmente, il 33 per cento delle famiglie – circa 400 milioni di persone – non ha accesso all’elettricità. Le disuguaglianze qui sono rigide: il 20% della popolazione – la più povera – utilizza solo il 5% dell’energia nazionale, mentre un altro 20% – la più ricca – utilizza l’80% dell’energia.

La democrazia energetica come processo

L’energia è generalmente intesa come un concetto astratto, riferibile a un singolo settore, staccato da ogni relazione sociale o ecologica. Pensare all’energia in questo modo può facilmente portare a pensare che la questione della transizione energetica verso una società low-carbon si risolva nella sostituzione dei combustibili fossili con altrettanta produzione di energia “pulita”, mantenendo in tal modo lo status quo rispetto alle altre variabili socio-economiche.

Dall’accesso all’energia alla giustizia ambientale, dai diritti dei lavoratori alla ripublicizzazione dell’energia, movimenti di persone nel mondo si stanno riprendendo il controllo sul settore energetico. Per alcuni (ma non tutti) di questi movimenti, il concetto di “democrazia energetica” è sempre più utile per dire della necessità di tenere insieme in un’unica agenda comune istanze diverse ma tra loro connesse. Si possono e si devono pertanto trovare altre modalità di produzione e consumo dell’energia.

La “democrazia energetica” ha a che fare con un passaggio di potere rispetto a tutti i settori connessi con l’energia: dalla produzione alla distribuzione e alla vendita; dalla finanza alla tecnologia e al know-how fino ai consumatori di energia e ai lavoratori. Il termine rimanda al desidero di un controllo collettivo del settore energetico, contrapposto all’attuale sistema neoliberale, in mano al mercato e alle imprese.

Gli attori che si attivano per la “democrazia energetica” chiedono anche un sistema energetico socialmente equo, che significa accesso universale all’energia, prezzi giusti e sicurezza per i lavoratori. Un sistema energetico che lavora nel pubblico interesse, dove i profitti siano investiti per il raggiungimento di obiettivi sociali e ambientali, per una progressiva riduzione dell’uso intensivo delle fonti fossili fino al raggiungimento di un mondo alimentato al 100% da energia rinnovabile.

Può essere produttivo pensare alla “democrazia energetica” come a un processo di democratizzazione in itinere. Ovvero, come possiamo organizzare la costruzione di un sistema energetico socialmente equo, sostenibile e controllato collettivamente, stante le condizioni storiche e geografiche che ci caratterizzano?

In questo senso la democrazia energetica non è un’utopia futura da raggiungere bensì è essa stessa composta da una serie di molteplici battaglie a proposito di chi controlla l’energia e di come, dove e per chi l’energia è prodotta e consumata. Non è sufficiente una chiara visione futura del settore dell’energia senza una concreta strategia con cui traguardare quel futuro.

Per chi desidera approfondire ulteriormente, la parte di rapporto che abbiamo tradotto analizza le relazioni tra la democrazia energetica, le Città e gli Stati: a quali condizioni è opportuno che i servizi energetici siano pubblici? Quali le criticità?

La democrazia energetica e le città: rimunicipalizzare?

“Se non siamo espliciti nel dire cha ‘vogliamo un sistema energetico che vada oltre il neoliberalismo”, allora continueremo operando sullo stesso campo di gioco. Allora noi sceglieremo le opzioni più semplici, favorendo chi è disponibile a investire. C’è sempre una grande domanda: come possiamo ottenere investimenti per l’eolico offshore? Come possiamo ottenere investimenti per gli impianti fotovoltaici? Se non pensiamo a cosa sono in realtà le strutture politiche che stiamo creando quando installiamo impianti fotovoltaici e quando cerchiamo gli investitori, poi finiremo per rimanere intrappolati nello spazio neoliberale”. Mika Minio-Palluelo (Piattaforma Londra).

Con la maggioranza della popolazione mondiale che vive nelle città, la scala urbana è sempre più una tappa fondamentale per l’azione sul cambiamento climatico e la transizione verso la sostenibilità. La creazione di utility comunali di energia di proprietà pubblica sono una pietra angolare dell’agenda politica attuata dalle piattaforme dei cittadini che sono entrati nei governi comunali in Spagna.
A dispetto del dominio e del potere delle utility private, negli Stati Uniti sono circa 40 milioni le persone servite da servizi pubblici comunali o cooperative elettriche. E in molte città senza utility pubbliche, c’è una crescente domanda di energia rinnovabile più democratica e trasparente, che costituisce una forte sfida politica all’energia privatizzata.

Tra le altre iniziative:

  • La New York Energy Democracy Alliance riunisce diverse comunità e movimenti dal basso per contestare la nuova Energy Vision della città, che mira a fermare uno schema che si propone di promuovere un sistema solare decentralizzato nelle mani delle società di servizi private. Al contrario, l’alleanza richiede un controllo pubblico democratico, la partecipazione della comunità e misure per assicurare la giustizia sociale, chiedendo che nessun abitante di New York debba pagare per l’energia oltre il 6% del proprio reddito.
  • Nel 2011, i residenti di Boulder, Colorado, hanno votato in favore della rottura della città con la società privata Xcel, creando la propria utility pubblica, democratica e trasparente. In un classico esempio di battaglia di Davide vs Golia, l’organizzazione giovanile New Era Colorado è riuscita a sconfiggere Xcel – che ha speso $1milione per la propria campagna di opposizione. Ma la battaglia non è ancora terminata.
  • La campagna Our Power si estende su sei città – San Antonio, Texas; Jackson, Mississippi; Eastern Kentucky, Kentucky; Black Mesa, Arizona; Detroit, Michigan; e Richmond, California – che chiedono una giusta transizione ad un’economia di energia pulita e democratica. La campagna, una partnership tra sindacati, gruppi indigeni e altri che lavorano per la giustizia razziale e la giustizia sociale, integra la richiesta di democrazia energetica con il desiderio di controllo su terra, acqua e cibo.

Uno spirito analogo della democrazia energetica urbana è evidente anche in Europa. A Berlino, la Berliner Energietisch ha riunito un’alleanza di oltre cinquanta gruppi – dagli ambientalisti a gruppi di residenti – per chiedere un referendum a fronte della loro proposta per la rimunicipalizzazione della rete di distribuzione e la creazione di una società di servizi energetici democratici. Stefan Taschner, portavoce della campagna, ha spiegato che l’iniziativa è stata fondata su tre principi fondamentali

  1. Energia pulita: l’azienda dovrebbe essere alimentata al 100% di energia rinnovabile.
  2. Giustizia sociale: l’azienda dovrebbe essere impegnata ad applicare tariffe accessibili per affrontare la povertà energetica.
  3. Democrazia: l’azienda dovrebbe essere di proprietà dell’amministrazione locale ma controllata attraverso la democrazia partecipativa, con: i) cittadini eletti come membri del consiglio di amministrazione; ii) assemblee consultive di vicinato; iii) totale trasparenza; iv) la possibilità di presentare una petizione al consiglio di amministrazione affinché tenga in considerazione eventuali questioni di diffusa preoccupazione pubblica.

Anche se la campagna ha raggiunto l’eccezionale performance di raccogliere i 200.000 firmatari della petizione necessari per promuovere il referendum, nonostante una maggioranza dell’83% – oltre 600.000 voti – il referendum ha avuto esito nullo a causa del mancato raggiungimento del quorum elettorale: per soli 21.000 voti. La sconfitta è avvenuta per mano del governo locale, che ha spostato la data del referendum lontano dalle elezioni generali, in un giorno isolato. La campagna però ha costretto l’amministrazione locale a concedere l’istituzione di una piccola utility di energia pulita e, inoltre, ha sostanzialmente aumentato il profilo di visibilità delle questioni relative alla democrazia energetica in città e oltre.

Tutto considerato, ci sono buone ragioni per perseguire la democrazia energetica nelle nostre città attraverso la rimunicipalizzazione delle utility: la scala locale è abbastanza vicina alla comunità per rimanere trasparente senza diventare troppo grande per essere controllata (come accaduto con Vattenfall in Svezia, Enel in Italia…)

La democrazia energetica e lo Stato

Dopo i fallimenti del socialismo statale nel ventesimo secolo molti nella sinistra hanno rinunciato negli ultimi anni allo Stato come arena di lotta. Un risultato è stato un aumento di interesse per le organizzazioni non statali e su piccola scala, come promessa di una società alternativa. In questo senso, il concetto di democrazia energetica era, nel suo uso precedente, forse principalmente associato alle cooperative energetiche di comunità operanti a livello locale.

Mentre la proliferazione delle cooperative energetiche in tutto il mondo è stata impressionante – e le cooperative hanno un ruolo vitale da giocare nella costruzione della democrazia energetica – i loro limiti sono anche divenuti evidenti. Questi programmi sono almeno in Europa spesso un po’ esclusivi, accessibili solo alle classi medie. Inoltre esse sono state, per ironia, dipendenti dai capricci dello Stato: nel Regno Unito, ad esempio, un fiorente settore energetico di comunità è stato fatto a pezzi dalla decisione del governo di tagliare gli incentivi feed-in-tariff.

In Uruguay, dieci anni di Stato focalizzato nella pianificazione da parte di un governo di sinistra ha visto una transizione da un settore dipendente dall’olio importato a quello in cui le fonti rinnovabili occupano il 94% dell’elettricità del paese e il 55% del suo mix energetico. In dieci anni, l’Uruguay è andato da zero MW di capacità dell’eolico, alla più alta proporzione della penetrazione dell’eolico nel suo mix energetico nel mondo. Questa transizione ha, inoltre, permesso alla popolazione di avere un accesso all’energia praticamente universale. Tutto ciò è stato raggiunto attraverso una politica a lungo termine, sostenuta da tutti i principali partiti dell’Uruguay e un adeguato quadro giuridico, normativo e istituzionale. Il processo è stato guidato da UTE, un’impresa statale.

Allo stesso modo, in Costa Rica, le energie rinnovabili occupano il 79% del mix energetico e il 99% del mix elettrico, con accesso all’energia quasi universale. Qui, l’85% della produzione di energia è posseduto o prodotto da istituzioni pubbliche, mentre le cooperative e le società comunali sono attive in entrambi i settori della generazione e distribuzione.

Tali casi dimostrano il potenziale della pianificazione statale e delle istituzioni pubbliche nella spinta verso rapide transizioni verso l’energia pulita e l’accesso universale. Tuttavia, non dobbiamo essere troppo romantici. Mentre sia in Uruguay che in Costa Rica lo Stato ha svolto un ruolo di primo piano, gran parte delle infrastrutture sono state costruite da aziende straniere, delocalizzando posti di lavoro e limitando la possibilità di ulteriori effetti moltiplicatori positivi nell’economia nazionale.

Nel caso dell’Uruguay, tuttavia, ora si teme che l’ottimo risultato possa essere minacciato: Total, Exxon e Statoil, in collaborazione con ANCAP, la Società di raffineria petrolifera uruguayana, stanno conducendo perforazioni esplorative e la scoperta delle riserve di petrolio ora sembra probabile. Chi sa cosa succederà al profilo verde del settore energetico del Paese (e all’economia) se le riserve petrolifere dovessero rivelarsi commercialmente redditizie.

Questi esempi latinoamericani illustrano sia il potenziale che i rischi di un percorso di democratizzazione dell’energia attraverso lo Stato. I teorici hanno da tempo sostenuto che dobbiamo intendere lo Stato come attore della lotta in corso. Le istituzioni statali sono profondamente coinvolte nelle relazioni sociali di dominio e oppressione, dal capitalismo al colonialismo al patriarcato.

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