L’Europa deve abbandonare in rapida progressione tutti i suoi impianti a carbone, altrimenti sarà impossibile rispettare gli accordi di Parigi sul taglio delle emissioni inquinanti.
C’è un calendario preciso, con le “date di scadenza” di più di 300 centrali attive nel vecchio continente: a pubblicarlo è l’istituto di ricerca Climate Analytics nel suo ultimo rapporto A stress test for coal in Europe under the Paris Agreement (allegato in basso).
I ricercatori, infatti, hanno calcolato che il carbon budget europeo per le unità a carbone nella produzione di energia elettrica è pari a 6,5 giga-tonnellate di CO2 da qui al 2050.
Tuttavia, se gli impianti esistenti continueranno a funzionare per il ciclo di vita calcolato al momento della loro costruzione, questo limite sarà ampiamente superato (+85%). Di conseguenza, il livello delle emissioni future sarà incompatibile con l’obiettivo di contenere il surriscaldamento terrestre a due gradi centigradi.
La tabella sotto riassume le chiusure “consigliate” da Climate Analytics per le 20 centrali più grandi d’Europa; due sono in Italia, Brindisi Sud e Torrevaldaliga Nord, rispettivamente 2.640 e 1.980 MW di potenza installata.
Con l’eccezione di Fiddler’s Ferry in Gran Bretagna, la cui dismissione è già prevista nel 2017 dallo scenario BAU (business as usual), gli altri impianti sulla carta dovrebbero produrre energia ancora per qualche decennio, in alcuni casi fino al 2063.
Secondo gli autori dello studio, al contrario, queste centrali dovrebbero andare off-line molto prima, nel periodo 2021-2031, con lievi differenze tra le due prospettive “regulator” (che penalizza maggiormente le unità con le emissioni di CO2 più elevate) e “market”, che invece considera prioritario il valore economico degli impianti.
Il risultato finale però non cambia: entro il 2030 il carbone europeo dovrà essere quasi azzerato, pena l’inosservanza degli obiettivi climatici parigini, come evidenzia il grafico sotto.
L’uscita anticipata dal carbone è un cardine della transizione energetica verso le fonti pulite. Parlando di coal phase-out il riferimento a Germania e Polonia è irrinunciabile: questi due paesi, insieme, valgono il 54% della capacità totale installata in Europa nella fonte fossile “sporca”.
Di recente abbiamo osservato quanto sia complessa e contradditoria la strategia energetica tedesca, che da un lato favorisce la crescita delle tecnologie rinnovabili, dall’altro continua ad aggrapparsi a carbone e lignite per oltre il 40% della generazione elettrica (Germania, quanto è difficile abbandonare il carbone).
Ancora più forte è la dipendenza polacca dal carbone, che assicura un buon 85% dell’elettricità consumata da questa nazione. Varsavia, tra l’altro, nemmeno a iniziato a ipotizzare o a programmare uno stop graduale degli impianti più obsoleti, mentre in Germania il dibattito è più aperto.
Secondo i dati diffusi dal WWF tedesco, Berlino dovrebbe fermare tutte le sue centrali carbonifere entro il 2035, sostituendole principalmente con eolico e, in misura minore, solare e altre risorse rinnovabili.
La Gran Bretagna, come abbiamo visto in questo articolo, sta utilizzando il gas come combustibile fossile di transizione per sostenere il boom di eolico e fotovoltaico. La Gran Bretagna è anche un esempio delle possibili misure da adottare, per colpire gradualmente gli impianti più nocivi per il clima: una carbon tax nazionale, sommata al prezzo della singola tonnellata di CO2 sul mercato europeo ETS (Emissions Trading Scheme).
Quest’ultimo da diverso tempo è entrato in crisi, con un’eccedenza di crediti di emissione rispetto alla domanda e conseguenti prezzi molto bassi, intorno a 5 €/tonnellata, che non riescono a “spingere” gli investimenti in efficienza delle industrie (vedi QualEnergia.it).
Per accelerare la dismissione delle unità fossili, oltre alla riforma del sistema ETS, secondo Carbon Analytics è indispensabile che i singoli Stati introducano regole più severe contro l’inquinamento del settore termoelettrico, promuovendo di pari passo lo sviluppo delle fonti rinnovabili, dei trasporti ecologici e delle smart grid con batterie di accumulo e dispositivi per gestire in modo “intelligente” la domanda.
L’obiettivo, inoltre, è consentire alle fonti pulite di partecipare ai servizi ancillari, come la regolazione di frequenza e la capacità di riserva, finora garantiti dalle sole centrali convenzionali a gas-carbone.
Intanto dall’Australia arrivano dati che smentiscono ancora una volta la convenienza del carbone rispetto alle altre fonti energetiche.
A dirlo è Bloomberg New Energy Finance (BNEF) in un recente studio, dove ha situato i valori LCOE dei più moderni impianti a carbone (levelized cost of energy, il costo “tutto compreso” dell’energia) nella fascia 134-203 dollari australiani per MWh, quindi circa 96-146 €/MWh, il doppio dei costi per costruire nuovi parchi eolici e solari in Australia.
Aggiungendo sistemi CCS (carbon capture and storage) – i cui benefici restano peraltro molto dubbi – la forchetta LCOE sarebbe ancora più svantaggiosa per la fonte fossile, con valori circa tripli in confronto alle concorrenti rinnovabili e al gas naturale.