Qual è l’accumulo migliore per la rete elettrica?

Gli accumuli per la rete richiedono sistemi capaci di stoccare non pochi kWh di elettricità, ma diversi megawattora. Per capire quale sistema ha convenienza economica e ambientale, Charles Barnhart, ingegnere energetico della Stanford University ha creato un parametro, l’ESOI, Energy Stored On Investment. E i sistemi elettrochimici ne escono male.

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Nei futuri sistemi energetici, in cui sole e vento avranno una importanza dominante, occorrerà risolvere il problema dell’accumulo, cioè di come mettere da parte l’energia prodotta nei momenti di abbondanza eccessiva della risorsa rinnovabile, per usarla poi quando ce n’è più bisogno. Anche se il problema riguarda soprattutto l’imprevedibile energia eolica, anche la produzione solare, in certi periodi dell’anno, per esempio nei giorni festivi molto soleggiati, può portare a eccessi di produzione, che sarebbe bene poter accumulare, per stabilizzare la rete e non sprecarli.

Se a livello di piccoli impianti famigliari, la risposta più semplice sono dei sistemi di accumulo a batterie, i cui prezzi stanno rapidamente scendendo (-14% nel 2012) in parallelo alla produzione crescente di accumulatori per auto elettriche, il discorso cambia quando si parla di accumuli per la rete, che richiedono impianti capaci di stoccare non pochi kWh di elettricità, ma MWh o più, in modo tanto economico da non mandare fuori mercato l’energia accumulata.

Ci sono molte proposte di sistemi di accumulo elettrico per la rete, ma in generale si possono dividere in tre categorie: sistemi fisici, elettrochimici e chimici.

I primi accumulano l’elettricità sotto forma di energia potenziale gravitazionale o di pressione, pompando acqua in bacini idroelettrici o comprimendo aria in strutture geologiche sotterranee (o CAES, compressed air energy storage). Sono sistemi economici, robusti e abbastanza efficienti, ma non realizzabili ovunque.

I secondi, le batterie, accumulano l’elettricità sfruttando la differenza di potenziale elettrochimico fra elettrodi diversi. Hanno un’alta efficienza, ma costano cari e hanno una vita spesso piuttosto breve

I terzi accumulano l’elettricità producendo composti chimici reattivi come l’idrogeno o il metanolo. Hanno una efficienza complessiva molto bassa, ma il vantaggio di poter accumulare l’energia in qualsiasi quantità, e senza limiti temporali.

I pro e contro di questi metodi ben presto dovranno essere attentamente studiati, per decidere il mix di sistemi di accumulo da utilizzare. L’Italia, per esempio, punterà sicuramente sui sistemi di pompaggio, di cui è già abbondantemente fornita, con una decina di GWh di capacità, limitando l’uso di batterie ad alcuni casi di impianti eolici isolati. La Germania, invece, non avendo grandi potenzialità idroelettriche adatte per il pompaggio, sta studiando sia il CAES in caverne, che l’accumulo chimico, sotto forma di metano sintetico.

Una mano a decidere sulla validità dei vari sistemi di accumulo, la dà adesso Charles Barnhart, ingegnere energetico della Stanford University, che in una ricerca pubblicata sulla rivista Energy & Environmental Science, ha creato un parametro che indica la convenienza economica e ambientale dei vari sistemi di accumulo.

Questo numero, chiamato ESOI (energy stored on investment) si ottiene dall’energia accumulata nell’intera vita dell’impianto, moltiplicata per l’efficienza nel ciclo di accumulo/rilascio, diviso per l’energia impiegata per la costruzione e installazione dell’impianto (qualcosa di simile EROEI, l’Energy Returned On Energy Invested o ritorno energetico sull’investimento energetico, ndr). In questo primo studio, Barnhart ha considerato solo il pompaggio, l’aria compressa e cinque tipi di batterie: al litio, al sodio-zolfo, allo zinco-bromo, al vanadio (del tipo a flusso) e al piombo.

I suoi risultati (vedi grafico) danno un chiaro pollice verso per i sistemi elettrochimici: l’ESOI delle batterie varia infatti da 10 per quelle al litio ioni, a un misero 2 per le batterie al piombo. Queste ultime, quindi, riescono ad accumulare nel corso della loro vita, appena il doppio dell’energia che è servita a costruirle, escludendo quindi la possibilità di un loro uso globale come sistema di accumulo.

“Anche riciclando i loro metalli a fine vita, per costruire nuove batterie – ci ha detto Branhart -si risolverebbe poco, in quanto il riciclo più o meno dimezza l’energia usata per la costruzione della batteria, non aumentando in modo sufficiente il loro ESOI. Inoltre, un loro uso globale a questo scopo, obbligherebbe a costruire milioni di nuove batterie, a partire da risorse minerarie, con ben poco contributo dal riciclo. Il risultato finale sarebbe un enorme aumento dei costi dell’energia e delle emissioni di CO2”.

Pollice decisamente su, invece per i sistemi fisici: il pompaggio idroelettrico ottiene un ESOI di 210, il CAES addirittura di 240, cioè nel corso della sua vita un impianto ad aria compressa riuscirebbe ad accumulare 240 volte tanta energia quanto è servito a costruirlo, di fatto aggiungendo ben poco, come costo capitale, al prezzo dell’energia accumulata.

“Il problema principale delle batterie – spiega Barnhart  – è la loro durata limitata. Oggi i costruttori, pensando alle auto elettriche, stanno migliorando le loro capacità di accumulo. Per la rete, invece, la caratteristica che conta è il numero di cicli carica/scarica che il sistema sopporta prima di dover essere sostituito. Bene, si scende dai 25.000 cicli di un impianto di pompaggio agli appena 700 di un accumulatore al piombo. Fino a che l’industria non creerà batterie di lunga vita pensate per l’accumulo di rete, questi dispositivi, pur con tutti i loro vantaggi di efficienza, facilità di uso e flessibilità, avranno poche chance in questo settore”.

C’è poi un altro svantaggio delle batterie, rispetto ai sistemi fisici. “Non si è affatto certi che esistano al mondo riserve economiche di metalli, come il vanadio, il litio o il piombo, per costruire abbastanza batterie al fine di coprire le esigenze globali di accumulo, cioè fra 4 e 12 ore di tutta l’elettricità giornaliera mondiale, quindi fra 8 e 25 TWh. Pompaggio e CAES, invece non richiedono altro che banali pompe, cemento, tubi e compressori”, ha chiarito l’ingegnere della Stanford University.

Pompaggio e CAES hanno però limitazioni geografiche: il primo richiede bacini idrici posti a livelli diversi, il secondo formazioni geologiche, come caverne, giacimenti di metano esauriti o acquiferi profondi, dove pompare l’aria.

Ma recentemente sono state proposte soluzioni per aggirare proprio questi ostacoli. Il Belgio, ad esempio, intende accumulare la sua energia eolica in eccesso, in una sorta di “lago nel mare”, un bacino artificiale a livello inferiore al fondo marino, isolato con un terrapieno circolare dalle acque intorno, da cui estrarre l’acqua nei momenti di eccesso di produzione eolica, per poi farla rientrare, attraverso turbine, in quelli di eccesso di domanda.

In Inghilterra, Seamus Garvey, ingegnere alla Nottingham University, sta invece sperimentando un sistema di CAES sottomarino, che accumula aria compressa in palloni ancorati sul fondo, tenuti in pressione dallo steso peso dell’acqua, rendendo così ogni mare profondo adatto al CAES.

“Lasciando da parte i sistemi di accumulo chimico – conclude Barnhart – di cui non ho ancora avuto occasione di valutare l’ESOI, fra i sistemi considerati nella mia ricerca quelli con la maggiore possibilità di soddisfare una richiesta globale di accumulo sono il CAES, geograficamente meno limitato del pompaggio, e, fra le batterie, quelle al sodio-zolfo, che pur avendo un ESOI di appena 6, usano elementi estremamente comuni ed economici, e hanno ancora grandi margini di miglioramento verso una maggiore longevità”. Il dibattitto è aperto, e quanto pare c’è ancora tanta ricerca da sviluppare.

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