Le barriere al piccolo idroelettrico

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Sebbene il piccolo e il mini-idro abbiano un notevole potenziale ancora da sfruttare, la diffusione di questi impianti in Italia segna il passo. Una recente sentenza del Consiglio di Stato che annulla una delibera dell'Autorità e le complesse procedure autorizzative sono al centro di un'intervista di Qualenergia.it a Sara Gollessi, responsabile del settore per Aper.

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Secondo la European Small Hydropower Association (Esha) in Europa si ha un potenziale di produzione da mini-idro di 68 TWh annui, che potrebbe dare un considerevole contributo all’obiettivo UE del 2020. Se l’idroelettrico è storicamente in Europa la tecnologia rinnovabile più diffusa, quasi tutto lo sviluppo futuro di questa si giocherà sul piccolo e sul mini-idro, cioè sugli impianti di taglie inferiori ai 3 MW. Grazie all’evoluzione della tecnologia, infatti, ora si possono sfruttare anche le cosiddette risorse marginali (per esempio integrando gli impianti in acquedotti, canali o depuratori) e con impatti ambientali spesso molto limitati.

Ma il piccolo idroelettrico non sta crescendo quanto potrebbe. Nonostante una produzione di 41mila GWh (grazie a una capacità di 13mila MW, di cui il 90% installati in 6 Paesi, soprattutto Italia, Francia, Spagna, Germania, Austria a Svezia) in molti Paesi europei – spiega l’ultimo rapporto Esha (pdf) – sta vivendo un momento “più di sopravvivenza che di sviluppo“. I problemi: un parco impianti piuttosto datato e un sistema normativo che complica la realizzazione di nuovi progetti.

Tra i Paesi in cui il mini-idro registra una frenata c’è anche il nostro. L’ultimo inciampo è arrivato pochi giorni fa con la sentenza del Consiglio di Stato che annulla definitivamente una delibera dell’Autorità per l’Energia e il Gas (Aeeg Arg/elt 109/08) che conteneva la revisione dei prezzi minimi garantiti per questa fonte, la prima tra le rinnovabili per cui erano stati differenziati.

Tutto era partito con il ricorso al TAR da parte di un’associazione dei consumatori (la Casa del consumatore, legata all’area del centrodestra) contro la delibera dell’Autorità: i prezzi minimi garantiti per gli impianti idroelettrici di potenza fino a 1 MW (nel 2008 pari  a 136 €/MWh per i primi 250 MWh anziché 98 come le altre fonti) avrebbero pesato troppo sulle bollette degli utenti (“solo 0,00006 €/kWh a consumatore”, ribatte l’Autorità). Prima il Tar Lombardia e poi il Consiglio di Stato hanno dato ragione ai consumatori, annullando la delibera. Risultato: i piccoli produttori idroelettrici (con potenze fino a 1 MW) dovranno restituire al GSE (Gestore Servizi Energetici) parte dei ricavi per la cessione dell’energia fatturati tra il 1° gennaio 2008 e il 30 giugno 2009, con il rischio di chiudere il bilancio 2010 in rosso.

Di questa vicenda, di potenzialità e barriere del piccolo idroelettrico abbiamo parlato con Sara Gollessi, responsabile del settore idroelettrico di Aper, l’Associazione dei Produttori di Energia da fonti Rinnovabili. “La sentenza del Tar Lombardia, cui è seguita quella del Consiglio di Stato, non è entrata nel merito delle questioni tecniche per stabilire se la tariffa fosse adeguata ai costi di produzione e manutenzione, ma ha stralciato la delibera per un supposto difetto di istruttoria in quanto i dati utilizzati erano stati forniti dai produttori stessi”.

Di quali incentivi gode il mini-idro al momento?
I prezzi minimi garantiti non sono un incentivo, perché coprono solamente i maggiori costi di gestione dei piccoli impianti. Assieme al ritiro dedicato si può accedere pertanto al sistema dei certificati verdi. Gli impianti sotto il MW entrati in funzione dopo il 1° gennaio 2008 possono invece accedere alla cosiddetta tariffa omnicomprensiva: 220 €/MWh riconosciuti per i primi 15 anni.

Quali sono gli ambiti a cui possono essere applicati impianti per taglie piccole o piccolissime? La tecnologia recente ne ha creati di nuovi?
Impianti dai 60-70 kW ai 3-400 kW possono essere installati nelle condutture dei piccoli acquedotti di montagna, mentre le taglie attorno ad 1 MW sono adatte per la rete di canali irrigui. Grazie agli sviluppi tecnologici ora si riescono a sfruttare salti molto bassi, anche di un paio di metri; le applicazioni sono possibili in molti ambiti: gli acquedotti e i canali d’irrigazione, appunto, le condotte in entrata o in uscita dagli impianti di depurazione o i sistemi di raffreddamento delle centrali termoelettriche.

Dal punto di vista economico quanto sono redditizi i piccoli impianti?
I costi e i tempi di ritorno dell’investimento variano molto da caso a caso, soprattutto in base alla necessità o meno di opere di ingegneria civile, ma anche il processo autorizzativo ha il suo peso. Il caso più semplice è un impianto su acquedotto per il quale possiamo ipotizzare un rientro dell’investimento di 5-8 anni.

Quali sono i vantaggi del mini-idro rispetto alle altre rinnovabili e che contributo potrà dare all’obiettivo rinnovabili 2020?
Il vantaggio principale di questa fonte è il fatto di produrre energia in maniera programmabile (impianti medio-grandi) e flessibile per adeguarsi alle richieste della rete. Nel guardare al potenziale dell’idroelettrico per l’obiettivo 2020 bisogna considerare che la produzione dei grandi impianti calerà per via dell’invecchiamento degli impianti e della normativa sul deflusso minimo vitale delle acque. Si potrà realizzare qualche altro impianto di medie dimensioni (10-15 MW), ma il grosso del potenziale verrà dal mini. Il position paper governativo del 2007 parla della possibilità di installare entro il 2020 circa 3mila nuovi MW di potenza idroelettrica – arrivando a un totale di  20mila – quasi tutta su taglie piccole. Alla luce delle difficoltà che ci sono soprattutto negli iter autorizzativi è però realistico abbassare la stima: forse altri 1.000-2.000 MW da qui al 2020.

Mi pare di capire che gli iter autorizzativi siano uno degli ostacoli maggiori che il mini idro incontra. Cosa c’è che non va e come si potrebbe migliorare?
Bisognerebbe snellire la procedura, specialmente per impianti piccoli e molto piccoli, come quelli installati su canali irrigui e acquedotti, che per loro natura hanno impatti ambientali molto ridotti. È stato fatto per esempio dalla Regione Lombardia, che ha escluso dalla valutazione di impatto ambientale impianti su acquedotto, canale irriguo o deflusso minimo vitale (l’acqua che proviene da altri impianti, ndr). Un altro problema è la concessione di derivazione delle acque, che viene assegnata ancora in base a un Regio Decreto del 1933 ed è rilasciata in alcuni casi a livello regionale e in altri a livello provinciale, con grande disomogeneità e confusione. Spesso gli enti locali hanno difficoltà a scegliere con criteri univoci e competenza tra i progetti alternativi in concorrenza tra loro: i tempi vengono così ulteriormente prolungati da contenziosi legali tra i concorrenti. Occorrerebbe stabilire criteri chiari e quantificabili per scegliere tra una concessione e l’altra in modo che sia più facile dirimere eventuali contenziosi.

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