Uccidere gli ambientalisti fa male anche agli affari?

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Lo sostiene una ricerca sugli impatti economici, che spiega anche che gli omicidi aumentano al crescere delle royalties.

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Se non dovessero bastare l’etica e la legalità – e non sembrano bastare, a vedere la storia e le cronache – c’è anche una motivazione venale che dovrebbe convincere un’azienda a non ricorrere alla violenza contro chi ostacola i suoi piani.

Uccidere gli ambientalisti, infatti, sembra essere un boomerang economico.

A sostenerlo è un nuovo studio realizzato da un trio di economisti dell’Università di Oxford e dell’australiana Monash University.

Nella ricerca (in basso), si sono analizzati 354 omicidi avvenuti nell’arco di due decenni in tutto il mondo e collegati a progetti minerari ed estrattivi.

Quello che emerge è che, nei dieci giorni che seguono la diffusione della notizia, le aziende coinvolte subiscono una perdita media di capitalizzazione di oltre 100 milioni di dollari, un valore calcolato dai dati di mercato dei dieci giorni prima e dopo l’omicidio, in modo da analizzare l’impatto economico sul progetto associato.

Ciò, si spiega, è particolarmente vero quanto più il fatto fa rumore: cioè se avviene in un giorno povero di altre notizie e se è collegato al nome di una società nota. In tutto questo, cioè nell’attirare l’attenzione sul delitto, un ruolo rilevante, oltre ai media, lo ha la società civile, ong in primis.

I ricercatori spiegano che gli attori di mercato esperti considerano destabilizzante la segnalazione di un’uccisione associata a un progetto, e reagiscono riducendo i legami finanziari.

Altra cosa interessante che emerge dal report è che, secondo gli economisti, il verificarsi di omicidi è positivamente correlato alle royalties pagate ai governi nazionali: in altre parole, gli omicidi avvengono più di frequente quando i progetti giovano anche alle autorità locali.

“Date le notevoli perdite sul mercato azionario che derivano dalla pubblicità negativa, ci si potrebbe chiedere perché le società minerarie quotate in borsa continuano a essere coinvolte in questi eventi”, osservano gli studiosi.

“Una possibile spiegazione – proseguono – è che un altro attore locale (oltre all’azienda, ndr), che beneficia del progetto minerario, ha un incentivo a sopprimere o eliminare l’opposizione ma non ne sostiene o sostiene solo parzialmente i costi. Ad esempio, i governi locali o federali potrebbero costituire un tale agente, poiché una produzione ininterrotta si tradurrà in royalties e entrate fiscali più elevate”.

Questo anche se, secondo lo studio, i guadagni attesi in realtà superano i costi solo per società minerarie o dell’oil & gas che costituiscono una quota sostanziale delle entrate annuali del governo.

Il seguente documento è riservato agli abbonati a QualEnergia.it PRO:

Lo studio:The Value of Names – Civil Society, Information, and Governing Multinationals on the Global Periphery” di David Kreitmeir, Nathan Lane e Paul A. Raschky

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