La transizione energetica causerà una nuova de-industrializzazione? Come rimediare, almeno in parte

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L’impatto della transizione energetica verso le rinnovabili per tre prodotti industriali di base ad alta intensità energetica. Un esempio di come potrebbero essere trasformate queste filiere.

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Non troppi anni fa si parlava delle rinnovabili come di una bizzarria di fanatici ambientalisti, a cui dare un contentino di pochi GW l’anno per tenerli buoni, mentre il mondo energetico sarebbe stato appannaggio per sempre dei giganti del fossile e del nucleare.

Il “contentino” nel 2023 è arrivato a 510 GW e l’80% della nuova potenza elettrica installata nel mondo è costituita da eolico e fotovoltaico: la sola Cina nei primi tre mesi del 2024, ha installato 45 GW di solare, più della metà di quello già connesso nell’intera Germania.

Cosa è successo? I “fanatici ambientalisti” hanno preso il potere?

Ovviamente no. Si è solo avverata una loro previsione di tanti anni fa: eolico e solare, essendo basati su risorse praticamente infinite, sfruttabili da semplici prodotti industriali producibili in quantità crescenti e a prezzi sempre inferiori, avrebbero finito per costare meno di ogni altra fonte energetica, soprattutto di quelle basate su risorse fossili finite, destinate a diventare sempre più rare e costose, oltre che fonte di problemi geopolitici, possiamo aggiungere oggi con cognizione di causa.

E ora che le rinnovabili sono diventate le fonti più economiche, tutti ci investono, snobbando le altre: una rivoluzione che diventerà valanga quando i sistemi di accumulo caleranno ancora un po’ di prezzo, rendendo sole e vento sempre più programmabili, quanto fossili e nucleare, eliminando così anche quel loro vantaggio in termini di accesso alle migliori tariffe per il bilanciamento della rete.

Un sorpasso che è già realtà per le fonti non rinnovabili più costose e molto prossimo anche per il carbone in Cina, India e Usa.

In questa ottica appaiono patetiche le posizioni di politici italiani che cercano di frenare la valanga in arrivo, ponendo ogni genere di ostacoli alle rinnovabili, con il risultato di rendere ancora meno competitivo il costo dell’energia in Italia.

Oppure quando si ipotizzano “piani B” basati su un improbabile “nuovo nucleare”, destinato ad essere terribilmente più costoso e meno affidabile di un sempre più maturo sistema a fonti rinnovabili.

Ma siamo solo all’inizio: con la transizione energetica presto dovrà fare i conti anche il sistema industriale, specialmente quello più energivoro, in parte per la convenienza crescente delle fonti “verdi”, e in parte per la necessità di rispettare i limiti di emissione.

La “questione industriale” della transizione non sarà facile da governare, e non solo per i problemi tecnici che comporta, per esempio come produrre “acciaio verde”, ma anche perché probabilmente innesterà una seconda fuga di industrie da alcuni dei paesi più avanzati, verso quelli più ricchi di energia rinnovabile.

Lo scenario è preso in considerazione da una ricerca apparsa su Nature Energy e condotta da un team diretto dal fisico Philipp Verpoort, del Potsdam Institute for Climate Impact Research (allegato in basso).

Viene analizzato l’impatto della transizione energetica su tre prodotti industriali di base ad alta intensità energetica: acciaio, urea (fertilizzante azotato) ed etilene (fondamentale nell’industria della plastica), dando per scontato che in futuro tutte e tre queste filiere si siano riconvertite dall’uso di fonti fossili alle rinnovabili.

Secondo i ricercatori, fra qualche decennio ci potrebbe essere una differenza di prezzo, che arriverà fino a 40 €/MWh, fra l’energia rinnovabile (e idrogeno “verde” relativo) prodotta in paesi ricchi di solare, eolico e altre rinnovabili come il Cile, l’Australia o il Nord Africa, e quella ottenuta in alcuni paesi industrializzati, come Giappone, Corea o Germania, le cui risorse rinnovabili sono certamente molto meno abbondanti.

“Questi paesi con meno produzione da rinnovabili possono reagire alla situazione in tre modi: continuare a installarne fino a coprire le esigenze dell’industria di base, magari chiudendo la differenza di competitività con incentivi pubblici, importare energia rinnovabile più economica sotto forma di idrogeno liquido trasportato da navi, oppure chiudere alcune fabbriche in patria per riaprirle nei paesi a maggiore abbondanza di sole e vento”, spiega Verpoort.

I ricercatori hanno analizzato le tre possibili risposte, arrivando a una conclusione piuttosto chiara: se questi Paesi si concentrano sulla produzione interna o sull’importazione di idrogeno verde, che comporta trasporti molto costosi, ciò sarà fonte di perdita di competitività per l’industria e di oneri che ricadranno sulla società; una strada che potrebbe addirittura trasformarsi in un vicolo cieco, in quanto insistendovi sul lungo termine, questi paesi perderebbero crescenti fette di mercato, rispetto a chi produce in condizioni energetiche più favorevoli.

Questo non vuol dire però che per mantenere la competitività occorra chiudere del tutto quelle filiere industriali, piuttosto bisognerà ridimensionarle, usando prodotti intermedi ad alto contenuto energetico, realizzati nei paesi ricchi di rinnovabili, da finire poi di lavorare nei paesi industrializzati.

“Importare beni intermedi industriali, più facili da trasportare dell’idrogeno, come il ferro preridotto per ricavarne acciaio, l’ammoniaca da cui poi ottenere urea, e il metanolo da trasformare in etilene, vuol dire concentrarsi sulla produzione a valle e sulla raffinazione, cioè settori industriali a maggior valore aggiunto e minore intensità energetica, più facili da coprire con la produzione locale da rinnovabili. Questa sarebbe probabilmente la strategia più economica e solida per garantire la competitività e, quindi, la sopravvivenza di importanti settori industriali in paesi non abbastanza ricchi di sole e vento per le lavorazioni di base”, spiega il fisico del Postdam Institute.

Secondo i ricercatori la “parziale delocalizzazione” garantirebbe rispetto alle altre strategie costi minori del 18% per l’acciaio, del 32% per l’urea e del 36% per l’etilene: risparmi significativi che possono fare la differenza nella sopravvivenza di questi comparti industriali.

Certo, il costo non è la sola considerazione di cui tenere conto nelle strategie industriali: ci sono anche i vantaggi delle catene del valore corte e integrate, l’affidabilità negli approvvigionamenti, i requisiti di qualità e le sovvenzioni pubbliche per la produzione a basse emissioni.

Ma secondo i ricercatori neanche questi fattori, da soli, potranno compensare il vantaggio dello spostamento di tali produzioni in paesi ricchi di rinnovabili, vista l’entità dei risparmi che si possono ottenere.

Più probabile, invece, che assisteremo a tentativi di bloccare la nuova deindustrializzazione, con furibonde battaglie politiche per mantenere in patria le produzioni primarie.

“Sarebbe però fuorviante parlare di ‘deindustrializzazione’, visto che se ne andrebbero solo le prime fasi delle lunghe catene del valore dei materiali di base ad alta intensità energetica. Questo spostamento presenta uno scenario potenzialmente vantaggioso per i paesi in via di sviluppo con basso costo delle rinnovabili: potranno industrializzarsi contando su questo loro vantaggio, diventando esportatori di beni primari con benefici per il reddito e l’occupazione dei giovani, riducendo anche l’incentivo a migrare altrove”, evidenzia Verpoort.

I paesi industrializzati, da parte loro, potranno invece concentrarsi sui loro punti di forza economici, di marketing e di ricerca, specializzandosi in quelle attività industriali che creano il maggior valore economico: come la produzione e commercializzazione di prodotti industriali sostenibili, ad esempio acciaio derivato da ferro preridotto con idrogeno verde, fertilizzanti ricavati da ammoniaca ricavata non più da metano ma da energia solare ed eolica, e plastiche ottenute tramite energia rinnovabile.

Una divisione dei compiti con benefici per il clima e magari capace di distribuire anche più equamente nel mondo i vantaggi della transizione energetica.

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